martedì 23 ottobre 2012

Se un dipendente della regione ci costa 178 euro

Emergono sempre più statistiche sulle Regioni italiane, frutto di interesse mediatico dettato dagli ultimi scandali e dal dibattito nazionale riguardante le autonomie regionali sempre più a rischio. E’ in corso una sorta di redde rationem da parte del Governo Monti, dettato da politiche europee sempre più stringenti, rispetto al nostro Paese e al suo intero sistema politico amministrativo, che finora è prosperato grazie ad una spesa pubblica senza freni (o quasi), utilizzata dalla classe politica italiana, in maniera trasversale e che nel Mezzogiorno è servita a raccogliere consensi a piene mani. Questa volta sotto accusa sono i numeri dettati dall’ufficio studi della Confartigianato e pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera, riguardanti l’eccesso di personale presso le nostre Regioni. Impietosi come sempre, se presi nella crudezza dei numeri, il rapporto afferma che su ogni tre persone impiegate una sarebbe di troppo. Per il Molise, per esempio, resisterebbe soltanto il 25% del personale attualmente in servizio: 680 dipendenti su 902 sarebbero superflui,  potrebbero restare in servizio solo 222. Secondo la Confartigianato per assimilarsi al modello più virtuoso delle piccole Regioni ordinarie la Campania, dovrebbe tagliare ben 4.746 impiegati su 7.501. Ma lo studio non risparmia neppure alcuni degli enti considerati più virtuosi, come l'Emilia Romagna, la Toscana e il Veneto, che potrebbero fare a meno rispettivamente del 31,9, del 34,4 e del 20,7 per cento del personale. In queste sole tre Regioni, seguendo il criterio adottato dall'ufficio studi dell'organizzazione degli artigiani, ci sarebbero circa 2.500 esuberi. Per non parlare di situazioni come quella dell'Umbria, dove risulterebbe in eccesso addirittura il 54,8 per cento del personale: dieci punti più rispetto alla Calabria.  Anziché le attuali 78.679 unità in servizio, ne sarebbero sufficienti 54.283. Con un risparmio enorme: due miliardi, 468 milioni e 300 mila euro l'anno . Cifra che equivale al 28 per cento dell'addizionare regionale dell'Irpef. Tagliando il personale in eccesso nelle Regioni, insomma, ogni cittadino italiano potrebbe risparmiare 41 euro l'anno di tasse, ma con differenze enormi: dagli 8 euro del Veneto agli 82 della Basilicata, fino ai 705 (settecentocinque) della Valle D'Aosta.  Niente di nuovo, il problema sarebbe particolarmente grave al Sud. Non a caso la stessa Corte dei conti, in un recentissimo rapporto, cita come significativa anche la situazione della Campania "che fa registrare, nel 2008 una consistenza più che doppia rispetto alla Regione Lombardia, dato che persiste nel 2010 nonostante la riscontrata flessione del 7,73 per cento". Lo studio della Confartigianato rimarca che la Regione Campania, con il 59 per cento degli abitanti della Lombardia, ha il 126 per cento dei suoi dipendenti. Interessante il dato tra personale dirigente e non dirigente: in Molise c'è un dirigente ogni 10,7 impiegati, un dato che permette uno squilibrio del costo procapite della Regione Molise che grava sui suoi abitanti. Nel Molise, infatti, si tocca il massimo per le Regioni ordinarie, con 178 euro per far fronte alle retribuzioni del personale regionale a carico di ogni cittadino, contro una media di 45 euro e un minimo, riscontrato sempre in Lombardia, di 23 euro. In Sicilia gli stipendi dei dipendenti regionali per 346 euro su ciascun abitante dell'isola: più del doppio rispetto ai 162 euro della Sardegna. Numeri che su un governo nazionale di taglio ragionieristico come quello Monti potrebbero suscitare enorme attenzione.

sabato 20 ottobre 2012

Piazze piene, urne vuote

Intervista ad Ester Tanasso, coautrice insieme ad Alessandro Tessari, del libro “Ascoltare il dissenso”, una proposta che vuole invertire la tendenza al non voto e a recuperare una parte sempre più rilevante del Paese al coinvolgimento politico, per dare corpo alla stessa democrazia. Se i cittadini non si riconoscono più in questo sistema, affermano gli autori, devono ricominciare a dettare le regole del gioco: ad iniziare dal numero dei parlamentari. Se la scheda bianca è un voto di protesta, deve avere efficacia nei risultati elettorali.

 
di Maurizio Oriunno

Il sistema politico italiano sembra essere paralizzato da circa venti anni intorno all’esaltazione di un dibattito ormai stucchevole sulle riforme mai attuate, a fronte di un sempre più cospicuo numero di cittadini che invece, abbandonando le urne o lasciando la scheda in bianco, ha lanciato un chiaro segnale di protesta verso la democrazia parlamentare non più rappresentativa della volontà popolare ma delle segreterie dei partiti. I numeri sono incontrovertibili: le schede bianche sono passate dalle poco più di seicentomila del 1948, espressione del 2,3% dei votanti, ai quattro milioni e mezzo circa del 2001, pari al 12,39% dei voti scrutinati. Nel 1994, nel 1996 e nel 2001 circa quattro milioni di italiani si sono espressi in tal senso: gli stessi voti di partiti come il Partito Popolare Italiano, la Lega Nord o Alleanza Nazionale. Anche il campo sociologico dell’area del non voto è mutata: se nel passato era appartenente alle classi meno elevate e senza titolo di studio nonché politicamente accettata e tollerata, oggi appare invece scelta determinata e convinta di professionisti, lavoratori dipendenti e strati sempre più ampi di ceto medio.

Da queste considerazioni è nato il libro “Ascoltare il dissenso”, edito da Mimesis per la collana Quaderni Fortuna, che vede come autori la molisana Ester Tanasso, avvocato nonché di cultore di Diritto pubblico presso l’Università del Molise e da Alessandro Tessari, ex deputato (ha ricoperto la carica di deputato al Parlamento della Repubblica VI-X legislatura); docente all’Università di Padova, che oggi vive a Freiburg im Breisgau, dove svolge attività di ricerca presso il Raimundus Lullus Institut della Facoltà teologica dell’Albert-Ludwig Universität.
Il volume intende proporre un’ipotesi di riforma della legge elettorale che riconosca alle schede bianche, intese come un comportamento di voto in senso pieno, la stessa rilevanza, in sede di computo elettorale, dei voti di preferenza e “attribuire” loro il relativo numero di seggi, lasciandoli vuoti. Con la conseguenza di diminuire il numero degli eletti in proporzione al numero di schede bianche. Secondo gli autori sarebbe questo il modo di ridurre democraticamente il numero dei parlamentari, con una precisa rispondenza rappresentativa tra elettori ed eletti, di ridurre conseguentemente la spesa pubblica, ma soprattutto spingerebbe i partiti ad essere rigorosi nella scelta di candidati presentabili di cui, di questi tempi, c’è quanto mai bisogno.
Proprio con Ester Tanasso abbiamo parlato del libro, approfondendo alcuni aspetti legati sia alla nostra realtà ma anche all’atteggiamento riscontrato dai partiti in ambito nazionale.
Dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario è cresciuto il numero dei partiti a fronte di un sempre più elevato numero di cittadini che decide di non recarsi alle urne o di lasciare la scheda in bianco. Non crede che si corra il rischio di vivere una democrazia monca?
Il sistema maggioritario, assimilando i partiti in due blocchi contrapposti, offre senza dubbio all’elettore una minore sfaccettatura di rappresentatività e ciò può rendere meno facile, per il cittadino,  il riconoscersi in uno schieramento.  Credo però che il forte astensionismo di questi anni derivi da un disgusto per la politica - intesa nel senso più deteriore - e per ciò che ha saputo esprimere, che ha ragioni molto più gravi di un non perfetto rispecchiamento: si tratta di una vera e propria presa di distanza degli elettori rispetto all’operato della classe politica.
Ad oggi, però, questo conduce assurdamente al perpetuarsi indisturbato di questo stato di cose: il cittadino critico non ha modo di esprimere il proprio giudizio e fasce sempre più cospicue di popolazione vengono escluse dal gioco democratico delle elezioni. E’ una democrazia che zoppica, certamente, e proprio questo campanello d’allarme è il punto di partenza del mio libro.
Nel libro redatto con Alessandro Tessari propone tra l'altro che le schede bianche siano (seppur con accorgimenti) rappresentative di altrettanti banchi vuoti in Parlamento. Quali critiche ha ricevuto dal mondo politico?
Abbiamo presentato il libro agli inizi di luglio a Roma nelle sale della Biblioteca della Camera dei Deputati, invitando a parlarne alcuni parlamentari dei diversi schieramenti.  Non si sono dimostrati entusiasti, naturalmente: nessuno è disponibile a segare il ramo su cui è seduto! Al di là, però, della preoccupazione per l’”eversività”, a loro dire, della proposta, che ne è invece secondo me l’aspetto più apprezzabile, posto che, proprio a fronte dell’inamovibilità della nostra classe dirigente, da essa scaturirebbe una riduzione democratica ed un rinnovo effettivo degli eletti - determinato dai cittadini - non ho ascoltato finora critiche sostanziali, di carattere tecnico-giuridico, all’applicabilità di questo sistema, che è l’aspetto a cui sono più interessata. In compenso, mi ha divertito sapere di ministri dell’attuale governo tecnico che hanno letto il libro con un certo interesse...
Esistono in altri paesi democratici esempi di questo genere?
Dal 1976 nel Nevada la scheda elettorale riporta anche la casella “Nessuno di questi candidati”. E’ un modo per esprimere esplicitamente la propria bocciatura partecipando al  voto, anche se poi non ha incidenza sul numero degli eletti. Va però ricordato che negli Stati Uniti l’ordinamento prevede le elezioni primarie, nonché l’istituto del recall che permette ai cittadini di destituire i funzionari pubblici in corso di mandato, laddove ne disapprovino le scelte.
Oggi esiste un sentimento radicato e dichiarato contro i rappresentanti delle istituzioni e della politica mai registrato in passato che viene chiamato "antipolitica". Secondo lei è frutto di una classe politica sempre più spesso inefficiente ed inefficace oppure è un fenomeno esistente da sempre nel nostro Paese ma che negli ultimi sessanta anni è stato mascherato dapprima dalla lotta tra ideologie contrapposte e poi dall'allarme democratico Lega/Berlusconi?
Credo invece che tutto ciò che viene definito antipolitica sia, al contrario, politica allo stato puro. Ogni volta che i cittadini fanno sentire civilmente le loro ragioni o le loro critiche siamo di fronte ad un gesto politico. Anzi, al motivo per cui la politica esiste.
La classe politica italiana è, invece, talmente abituata a vedere se stessa esclusivamente come un nucleo di accentramento del potere, da rifiutare qualunque confronto con chiunque, a vario titolo, “disturbi il manovratore”.
La parola “strumentalizzazione” ha accompagnato tutto il dibattito politico di questi anni, neutralizzando così qualunque possibilità di dialogo costruttivo e di critica civile, fino al conio del termine “antipolitica” che esclude dal gioco, ora in partenza, così etichettandolo,  chi semplicemente esprime un dissenso.
La riduzione del numero dei parlamentari o quella delle assemblee elettive regionali rivela iter legislativi e burocratici dai tempi lunghissimi. In Italia la classe politica, secondo lei, possiede nel suo Dna la forza di autoriformarsi?
Temo che, compiendo un fatale errore di valutazione, la classe politica non abbia ancora realmente percepito l’urgenza e la necessità di tale rinnovamento. D’altra parte, in presenza di una legge elettorale che ha spezzato il legame di rispondenza e di responsabilità degli eletti nei confronti dei cittadini, oggi, a quanto vedo, il beau geste di una riforma si limita alle parole e agli auspici. Ma mi auguro con tutto il cuore di essere contraddetta.
Per ovvi motivi conosce il Molise. E' legittimo poter immaginare oggi una regione di poco più di trecentomila abitanti che vive molto spesso di politica? Un consigliere regionale ogni 10 mila abitanti, a fronte della Lombardia che ne ha uno ogni 120 mila?
Conosco il Molise perché sono molisana! Sono nata, vivo e lavoro qui. In effetti, bisognerebbe chiedersi se, in Molise, sia stata la politica a fagocitare la regione o se invece sono stati i molisani a consegnarsi alla politica e a credere a questo “modello di sviluppo”. Ad ogni modo, il risultato è sotto i nostri occhi. Non credo possiamo ancora permetterci i costi di questo sistema. Le riduzioni e gli accorpamenti saranno, ritengo, inevitabili. Confido molto, però, nel fatto che i molisani sapranno fare politica col loro lavoro e sempre meno della politica il loro lavoro.