giovedì 13 dicembre 2012

La Cicerchia del Molise? Si produce a Foligno

I nostri prodotti tipici necessitano di regole e disciplinari di produzione
Negli ultimi anni l’agenda politica locale è stata riempita di dibattiti, dichiarazioni ed eventi legati alla valorizzazione dei nostri prodotti naturali. Non c’è paese molisano che rivendichi un’eccellenza in questo campo, non c’è amministratore attento che non declami le virtù del prodotto tipico o dell’enogastronomia locale, spesso dovuto alla sapienza e alla laboriosità di società e cooperative che, tra mille sforzi, cercano quote di mercato nella distribuzione italiana ed internazionale, spesso senza avere alle spalle uffici e competenze commerciali. E’ un dato di fatto, comunque, che dopo la battaglia persa sul marchio Montepulciano d’Abruzzo con i cugini abruzzesi, inspiegabilmente, non si è voluto proseguire sulla strada della valorizzazione, della denominazione e dei disciplinari per la coltivazione, preparazione e commercializzazione dei prodotti “made in Molise”. Se per i prodotti caseari continua ad esistere il problema irrisolto dell’utilizzo di materie prive provenienti da realtà extranazionali, così come per la pasta, per molti resta un mistero come una società di Foligno possa produrre e commercializzare senza problemi “La cicerchia del Molise”, legume dalle molteplici particolarità nutritive e riconosciuto dal mondo vegetariano e vegano, come prodotto proveniente dal Molise. L’azienda in questione è la Fertitecnica Colfiorito, con sede legale e stabilimento a Colfiorito di Foligno, in provincia di Perugia: insieme alle cicerchie del Molise commercializza molto altri prodotti come i Fagioli Vellutina della Sicilia, i Fagioli Saluggia del Piemonte o l’Orzo Perlato dell’Alto Lazio.
Ancor più emblematico, restando nel campo della cicerchia del Molise è il caso della società Terre d’Italia che, oltre a distribuire il prodotto tramite internet, commercializza in esclusiva “La cicerchia del Molise” anche sui banchi della grande distribuzione grazie a Carrefour. Il legume è l’unico prodotto proveniente dal Molise nell’ampia scelta di prodotti e specialità regionali presenti nel catalogo. Ovviamente non siamo in grado di sapere se il prodotto commercializzato proviene dai nostri agricoltori o proviene da altre realtà italiane o addirittura estere. Anche se così fosse, resta l’amaro in bocca per come spesso vengano decantate le particolarità della nostra regione senza che però si arrivi alla loro piena valorizzazione attraverso la capitalizzazione di un settore che altrove produce reddito e lavoro. Un settore che può ridare senso alle nostre campagne sempre più abbandonate ma che ha bisogno di investimenti sulla commercializzazione e sul marketing, oltre che di volontà politica circa la redazione di disciplinari e di regole stringenti che qualifichino e rendano davvero uniche le nostre tipicità. Altrimenti permetteremo ai furbi di continuare a saccheggiare il nome della nostra regione e noi a restare eternamente immobili con la nostra sveglia al collo.

martedì 13 novembre 2012

Decreto Balduzzi: sanità molisana da ricostruire

Oltre al taglio dei posti letto si preannuncia un pericoloso depotenziamento delle strutture pubbliche e private
Se fino ad oggi la corsa contro il tempo del sistema sanitario regionale era dovuta al rientro dal debito sanitario, autentico calvario che di fatto ha sancito minori servizi e maggiori tasse per i cittadini molisani, entra in gioco nelle prossime settimane il regolamento sui nuovi standard ospedalieri, previsto dalla spending review di Monti, e inviato alle Regioni dal ministro Balduzzi in vista della necessaria intesa alla Conferenza Stato Regioni. Un’incombenza che riporterebbe a zero la programmazione sin qui compiuta e che vedrà il commissario Filippo Basso, nell’immediato futuro, impegnato nel disegnare le nuove linee guida dell’atto aziendale dell’Asrem nonché la predisposizione del nuovo Piano Sanitario Regionale, alla luce delle nuove regole imposte dal Ministero.
Stando ai dati in nostro possesso il Molise, in base al numero dei suoi abitanti, per attivare o confermare (nel caso dell’ospedale regionale Cardarelli di Campobasso) la presenza di presidi di II° livello, dovrà andare ad un accordo interregionale con le regioni confinanti entro il 30 giugno 2013, mentre per Isernia e Termoli (avendo un bacino d’utenza compreso tra gli 80mila ed 150 mila abitanti) gli ospedali rischierebbero, pur in presenza di standard e specialità adeguate, di essere considerati presidi di base. Ma vediamo cosa stabilisce il nuovo regolamento in merito alla tipologia di strutture ospedaliere in ordine di complessità e che rende inutile qualsiasi presa di posizione contraria, che ancora si avverte in modo residuale nel basso Molise. Il regolamento stabilisce che saranno considerati presidi di base, le strutture aventi bacino d’utenza compreso tra 80.000 e 150.000 abitanti. Dovranno essere dotate di Pronto Soccorso con la presenza di un numero limitato di specialità con servizio di supporto in rete di guardia attiva. Ci saranno poi i presidi di I livello (oggi Termoli e Isernia): ovvero strutture aventi bacino d’utenza tra 150.000 e 300.000 abitanti. Saranno sede di DEA di I° livello. Sono strutture che dovranno essere dotate di un notevole numero di specialità con servizio medico di guardia attiva. Devono essere presenti o disponibili in rete h 24 servizi di radiologia con Tac ed ecografia, laboratorio, servizio immunotrasfusionale. Infine i presidi di II livello (oggi il Cardarelli di Campobasso): ovvero strutture con bacino d’utenza tra 600.000 e 1.200.000 abitanti. Saranno dotate di strutture di DEA di II° livello. Questi presidi sono riferibili alle Aziende ospedaliere, ospedaliero universitari ma anche a determinati IRCCS. I presidi in questione dovranno possedere tutte le caratteristiche di quelli di I° livello ma in più dovranno essere dotate di strutture in grado di affrontare discipline e patologie più complesse.
Questa nuova riperimetrazione della sanità pubblica molisana si accompagna a quella decisiva per la sanità privata. Sono fortissimi infatti i timori nelle ultime ore per il futuro delle tre cliniche private regionali, alla luce del nuovo schema di regolamento sulla riorganizzazione della rete ospedaliera del Ministero della Salute che interviene anche sulle strutture private accreditate. Il comma contenuto nel regolamento parla chiaro: non potranno infatti essere più accreditate le cliniche private con meno di 80 posti letto per acuti. A rischio sarebbe il 63% delle cliniche private italiane: questo è il risultato dei nuovi standard ospedalieri all'esame delle Regioni, in base ad una prima elaborazione effettuata daQuotidiano Sanità sui dati del Ministero riferiti all’anno 2011. Su 406 case di cura private accreditate per le acuzie, per un totale di 28.945 letti per acuti sarebbero 257, il 63,3% del totale, quelle che hanno meno di 80 posti letto per acuti, e non rientrano nel nuovo limite previsto dal regolamento ministeriale. In tutto potrebbero essere sconvenzionati dal Ssn 10.412 posti letto per acuti, pari al 35,9% dei letti per acuti nel privato accreditato.
Ma guardiamo alla situazione molisana: stando alla riparametrazione effettuata dal Ministero della Salute sarebbe a rischio l’accreditamento per Villa Maria a Campobasso con i suoi 40 posti letto (34 per acuti, 4 per day hospitale e 2 per day surgery), così per Villa Esther a Bojano con i sui 74 posti letto (66 per acuti, 3 per day hospital e 5 per day surgery) e per l’Igea - Istituto Europeo di Riabilitazione di Isernia con i suoi 40 posti letto per acuti. In totale sarebbero 154 i posti letto a rischio e con loro, ovviamente, anche il personale dipendente. Una tegola che si abbatterebbe sulla sanità privata e che comprometterebbe decine e decine di posti di lavoro.
Una regolamentazione che corre il rischio di non essere coadiuvata e rappresentata dalla politica locale in campo nazionale, stando lo stato di cose nel Consiglio regionale del Molise e il perdurare del commissariamento e che, dato il taglio del decreto, potrebbe contribuire a creare ulteriori forti disarmonie in un territorio privo di infrastrutture e di un sistema di trasporti adeguato, causando minori diritti per chi abita nelle aree interne e montane. MO

domenica 11 novembre 2012

Gas: l’attacco proviene dalla Puglia

La realizzazione del nuovo metanodotto Larino – Chieuti servirà a pompare idrocarburi dal Molise e dalla Daunia
Sono tante le manovre che vedono sottoposto il nostro territorio ad un vero e proprio assalto da parte di imprese del campo energetico: dopo la prima parte dell’inchiesta di ieri sull’estrazione di petrolio che vedrebbe minacciato il Fortore fino al massiccio di Frosolone, ci spostiamo nel basso Molise dove, proprio verso il confine dauno, la giunta Vendola avrebbe autorizzato già ben nove autorizzazioni che permetteranno l’estrazione di gas oltre a dare il via libera alla costruzione del nuovo metanodotto Larino – Chieuti. Infatti, in deroga alle leggi, ai vincoli e alla pianificazione locale la Giunta Vendola ha rilasciato ai Comuni di Serracapriola, San Paolo di Civitate e Torremaggiore (FG) e alla Società Gasdotti Italia Spa, l’Attestazione di Compatibilità per la realizzazione del metanodotto Larino – Chieuti – Reggente. Anche in questo caso, come troppo spesso accade, le parole d’ordine sono“urgenza e indifferibilità” scrive Gianni Lannes, giornalista d’inchiesta sul suo blog“Su la testa”, a proposito dell’invasione di multinazionali nella ricerca di idrocarburi in Puglia.  Il progetto consiste nella realizzazione di un nuovo metanodotto di collegamento tra la Centrale Gas di Larino e la Stazione di Interconnessione di Torremaggiore. La nuova condotta avrà una lunghezza di circa 46 Km e procederà quasi parallelamente al tracciato delle condotte esistenti. Il metanodotto in progetto ha una lunghezza pari a 45 km + 936 e si sviluppa nella Provincia di Campobasso, attraversando i territori dei Comuni di Larino, San Martino in Pensilis, Ururi, Rotello, e nella Provincia di Foggia, attraversando i territori dei Comuni di Serracapriola, San Paolo di Civitate, Torremaggiore. Il quadro dunque sarebbe completo: il metanodotto della SGI in fase di costruzione (cantieri della Romana Costruzioni), tra la provincia di Foggia e quella di Campobasso, servirà a fare incetta del gas da estrarre prossimamente. Obiettivo delle multi nazioni, oltre alle perforazioni al largo delle Tremiti, il Basso Molise e il nord della Daunia. L’obiettivo è pompare idrocarburi con due diverse richieste di trivellazioni che riguardano oltre 500 chilometri quadrati e ben 14 comuni, 9 dei quali molisani: Termoli, Campomarino, Guglionesi, Petacciato, San Giacomo degli Schiavoni, San Martino, Portocannone, Ururi e Rotello; il resto pugliesi come Chieuti, Serracapriola, Lesina, San Paolo Civitate, Torremaggiore. Ma le istanze ferme al Ministero non sarebbero una novità:la più datata si chiama “Il Convento”. Secondo fonti interne all’ente, la Regione Molise avrebbe richiesto di poter visionare i progetti, poiché sembrerebbe quella più pericolosa per il territorio regionale. Si tratta di un permesso che riguarderebbe un territorio decisamente ampio. Ben 412,8 chilometri quadrati da trivellare, oltre 229,89 in Puglia e più di 182,91 in Molise, per qualcosa come 13 Comuni interessati. Le due ditte, la “Compagnia generale idrocarburi” e la “Appenine Energy” hanno individuato il territorio potenzialmente fornito di oro nero in un’area che va da Termoli fino a Lesina. L’altra istanza, firmata dalla Vega Oil e dalla Vittorito Petroleum reca la data del 31 marzo 2010. Il procedimento è in dirittura d’arrivo. E’ intitolato “Colle della Guardia”. Il territorio è più circoscritto e riguarda interamente il Basso Molise per un totale di oltre 83,87 chilometri quadrati ai confini fra Molise e Puglia, andando a ricongiungersi alle prospezioni in atto in Capitanata proprio dalla Vittorito Petroleum. Quali sono i pericoli ai quali potrebbe andare incontro il nostro territorio con un intervento così importante per la ricerca e la coltivazioni di idrocarburi? L’attività intrusiva porta con sé il rischio di inquinamento delle falde dovuto all’alta probabilità di infiltrazioni di gas naturale e di fluidi lubrificanti/perforanti, la cui composizione è mantenuta segreta dalle società petrolifere. In un territorio prevalentemente agricolo come il nostro, l’impatto sulla qualità della produzione e sulla salute della popolazione non sarebbe quantificabile, data la vitale importanza delle risorse idriche. Esempi di contaminazione delle acque potabili sono stati registrati in Basilicata, dove quindici anni di estrazioni hanno danneggiato in maniera irreversibile l’economia e gli ecosistemi locali. A questi vanno aggiunti i problemi dovuti alla rete di infrastrutture (oleodotti, metanodotti) che impatterebbe ulteriormente su un territorio la cui produzione agricola d’eccellenza verrebbe gravemente compromessa. Quali i vantaggi? Praticamente inesistenti. L’opera è infatti completamente privata e le royalties pagate dalle compagnie petrolifere allo Stato sono ridicole, attualmente pari al 10 per cento sui profitti. MO
La Gazzetta del Molise 11/11/2012

 

venerdì 9 novembre 2012

Petrolio, pericolo o opportunità per il Molise?


I contenuti del nuovo Piano energetico nazionale parlano chiaro: entro il 2020 le energie rinnovabili saranno la prima fonte di energia elettrica in Italia. Questa è la premessa espressa nel disegno di legge del Governo sulla Strategia energetica nazionale: il primo programma complessivo dal 1988 ad oggi che resterà a disposizione del Parlamento per altre sei settimane, un’eredità pesante dell’esecutivo Monti da lasciare ai prossimi governi. Un programma che però getta ombre sullo sfruttamento del territorio in quanto incentiverà la produzione sostenibile di prodotti petroliferi nazionali ovvero più trivellazioni, a fronte di una diminuzione degli incentivi destinati per le energie rinnovabili. In questo contesto oggi a Venezia il presidente del Consiglio regionale del Molise, Mario Pietracupa, porterà all'attenzione del Ministro per l'Ambiente Corrado Clini le ragioni del Consiglio regionale e di tutti i molisani a sostegno del motto 'no al petrolio in mare, sì allo sviluppo ecosostenibile', dopo che l’assise di Via IV Novembre ha votato all'unanimità una proposta di legge da inviare alle Camere affinché sia disposto il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle acque prospicienti i territori regionali. A Palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale del Veneto, si tiene infatti la Conferenza internazionale delle Regioni adriatiche e ioniche sul tema della ''Salvaguardia delle coste delle Regioni del mare Mediterraneo dall'estrazione di idrocarburi in mare''.

Ma il pericolo trivellazioni non arriva solo dal mare: nei giorni scorsi è stato lo stesso presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi, a sintetizzare con alcune cifre il nuovo scenario. La riprogrammazione del mix di fonti (fossili, rinnovabili e risparmio energetico), soprattutto nel Mezzogiorno porterà un risparmio sulle importazioni di greggio a vantaggio in parte di rinnovabili, in parte di una maggiore produzione nazionale di idrocarburi. Intervenendo nella facoltà di Economia di Torino a proposito del ruolo dell’Eni nel contesto economico nazionale, Recchi ha confermato un aumento di almeno il 15 per cento della attuale produzione di greggio in Italia entro il 2030. In linea con il piano predisposto dal Ministro Corrado Passera e dal Ministero per lo Sviluppo Economico, l’Eni ritiene possibile sfruttare in maniera molto più decisa i giacimenti nel Belpaese. Ripreso dalle agenzie, il presidente dell’Eni ha affermato che “le riserve di greggio conosciute ammontano a 5.500 miliardi di barili, che significano un indice di consumo per 170 anni”. E ha indicato l’obiettivo dell’incremento delle estrazioni, “dagli attuali 90 milioni di barili al giorno a 110 milioni di barili al giorno nel 2030, il più grande incremento in un decennio dagli anni ‘80”.

Oltre alla fascia costiera, già da tempo oggetto di coltivazioni di idrocarburi, ovvero da santa Croce di Magliano fino a Mafalda, è l’intero antico Sannio ad essere nello scenario, data la presenza acclarata nel corso del tempo di giacimenti di idrocarburi, peraltro oggetto di nuove esplorazioni che vanno dal beneventano fino ai comuni matesini e del massiccio di Frosolone. L’area denominata “Santa Croce” (che comprende anche il territorio di Campobasso), del resto, sono già assimilate al sistema estrattivo nazionale, mentre per il territorio di Pescopennataro e per il territorio di Petacciato sono ancora in corso le istruttorie preliminari.

Ma non è finita perché si attende l’esito dell’istruttoria avviata da due diverse società, Sviluppo Risorse Naturali collegata alla Delta Energy con sede a Londra e la Società Italmin Exploration che hanno presentato al Ministero per lo Sviluppo Economico altrettante istanze per l'esplorazione e la ricerca petrolifera (satellitare e attraverso linee sismiche esistenti) denominata "Pietra Spaccata" che interesseranno l'Alto Sannio, con i Comuni di Morcone, Fragneto Monforte e Fragneto L'Abate ed una parte della zona di Apice. Oltre alla Campania con le province di Benevento ed Avellino, è interessata dunque anche la provincia di Campobasso.

Una situazione che resta in evoluzione, mentre la politica molisana è debole come non mai e con gli amministratori locali spesso al buio rispetto a scelte nazionali. Il timore riguarda un vasto territorio che da qualche tempo vuole accelerare il suo sviluppo con scelte completamente opposte (agricoltura biologica, turismo sostenibile, qualità della vita e dell’ambiente) e che corre il rischio di vedere infranti i suoi sforzi dall’impatto ecologico di un eventuale avvio di attività estrattive che, in altre regioni (si veda la Val d’Agri in Basilicata), hanno compromesso negativamente qualsiasi altro tipo di attività. MO
La Gazzetta del Molise 09/11/2012

martedì 23 ottobre 2012

Se un dipendente della regione ci costa 178 euro

Emergono sempre più statistiche sulle Regioni italiane, frutto di interesse mediatico dettato dagli ultimi scandali e dal dibattito nazionale riguardante le autonomie regionali sempre più a rischio. E’ in corso una sorta di redde rationem da parte del Governo Monti, dettato da politiche europee sempre più stringenti, rispetto al nostro Paese e al suo intero sistema politico amministrativo, che finora è prosperato grazie ad una spesa pubblica senza freni (o quasi), utilizzata dalla classe politica italiana, in maniera trasversale e che nel Mezzogiorno è servita a raccogliere consensi a piene mani. Questa volta sotto accusa sono i numeri dettati dall’ufficio studi della Confartigianato e pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera, riguardanti l’eccesso di personale presso le nostre Regioni. Impietosi come sempre, se presi nella crudezza dei numeri, il rapporto afferma che su ogni tre persone impiegate una sarebbe di troppo. Per il Molise, per esempio, resisterebbe soltanto il 25% del personale attualmente in servizio: 680 dipendenti su 902 sarebbero superflui,  potrebbero restare in servizio solo 222. Secondo la Confartigianato per assimilarsi al modello più virtuoso delle piccole Regioni ordinarie la Campania, dovrebbe tagliare ben 4.746 impiegati su 7.501. Ma lo studio non risparmia neppure alcuni degli enti considerati più virtuosi, come l'Emilia Romagna, la Toscana e il Veneto, che potrebbero fare a meno rispettivamente del 31,9, del 34,4 e del 20,7 per cento del personale. In queste sole tre Regioni, seguendo il criterio adottato dall'ufficio studi dell'organizzazione degli artigiani, ci sarebbero circa 2.500 esuberi. Per non parlare di situazioni come quella dell'Umbria, dove risulterebbe in eccesso addirittura il 54,8 per cento del personale: dieci punti più rispetto alla Calabria.  Anziché le attuali 78.679 unità in servizio, ne sarebbero sufficienti 54.283. Con un risparmio enorme: due miliardi, 468 milioni e 300 mila euro l'anno . Cifra che equivale al 28 per cento dell'addizionare regionale dell'Irpef. Tagliando il personale in eccesso nelle Regioni, insomma, ogni cittadino italiano potrebbe risparmiare 41 euro l'anno di tasse, ma con differenze enormi: dagli 8 euro del Veneto agli 82 della Basilicata, fino ai 705 (settecentocinque) della Valle D'Aosta.  Niente di nuovo, il problema sarebbe particolarmente grave al Sud. Non a caso la stessa Corte dei conti, in un recentissimo rapporto, cita come significativa anche la situazione della Campania "che fa registrare, nel 2008 una consistenza più che doppia rispetto alla Regione Lombardia, dato che persiste nel 2010 nonostante la riscontrata flessione del 7,73 per cento". Lo studio della Confartigianato rimarca che la Regione Campania, con il 59 per cento degli abitanti della Lombardia, ha il 126 per cento dei suoi dipendenti. Interessante il dato tra personale dirigente e non dirigente: in Molise c'è un dirigente ogni 10,7 impiegati, un dato che permette uno squilibrio del costo procapite della Regione Molise che grava sui suoi abitanti. Nel Molise, infatti, si tocca il massimo per le Regioni ordinarie, con 178 euro per far fronte alle retribuzioni del personale regionale a carico di ogni cittadino, contro una media di 45 euro e un minimo, riscontrato sempre in Lombardia, di 23 euro. In Sicilia gli stipendi dei dipendenti regionali per 346 euro su ciascun abitante dell'isola: più del doppio rispetto ai 162 euro della Sardegna. Numeri che su un governo nazionale di taglio ragionieristico come quello Monti potrebbero suscitare enorme attenzione.

sabato 20 ottobre 2012

Piazze piene, urne vuote

Intervista ad Ester Tanasso, coautrice insieme ad Alessandro Tessari, del libro “Ascoltare il dissenso”, una proposta che vuole invertire la tendenza al non voto e a recuperare una parte sempre più rilevante del Paese al coinvolgimento politico, per dare corpo alla stessa democrazia. Se i cittadini non si riconoscono più in questo sistema, affermano gli autori, devono ricominciare a dettare le regole del gioco: ad iniziare dal numero dei parlamentari. Se la scheda bianca è un voto di protesta, deve avere efficacia nei risultati elettorali.

 
di Maurizio Oriunno

Il sistema politico italiano sembra essere paralizzato da circa venti anni intorno all’esaltazione di un dibattito ormai stucchevole sulle riforme mai attuate, a fronte di un sempre più cospicuo numero di cittadini che invece, abbandonando le urne o lasciando la scheda in bianco, ha lanciato un chiaro segnale di protesta verso la democrazia parlamentare non più rappresentativa della volontà popolare ma delle segreterie dei partiti. I numeri sono incontrovertibili: le schede bianche sono passate dalle poco più di seicentomila del 1948, espressione del 2,3% dei votanti, ai quattro milioni e mezzo circa del 2001, pari al 12,39% dei voti scrutinati. Nel 1994, nel 1996 e nel 2001 circa quattro milioni di italiani si sono espressi in tal senso: gli stessi voti di partiti come il Partito Popolare Italiano, la Lega Nord o Alleanza Nazionale. Anche il campo sociologico dell’area del non voto è mutata: se nel passato era appartenente alle classi meno elevate e senza titolo di studio nonché politicamente accettata e tollerata, oggi appare invece scelta determinata e convinta di professionisti, lavoratori dipendenti e strati sempre più ampi di ceto medio.

Da queste considerazioni è nato il libro “Ascoltare il dissenso”, edito da Mimesis per la collana Quaderni Fortuna, che vede come autori la molisana Ester Tanasso, avvocato nonché di cultore di Diritto pubblico presso l’Università del Molise e da Alessandro Tessari, ex deputato (ha ricoperto la carica di deputato al Parlamento della Repubblica VI-X legislatura); docente all’Università di Padova, che oggi vive a Freiburg im Breisgau, dove svolge attività di ricerca presso il Raimundus Lullus Institut della Facoltà teologica dell’Albert-Ludwig Universität.
Il volume intende proporre un’ipotesi di riforma della legge elettorale che riconosca alle schede bianche, intese come un comportamento di voto in senso pieno, la stessa rilevanza, in sede di computo elettorale, dei voti di preferenza e “attribuire” loro il relativo numero di seggi, lasciandoli vuoti. Con la conseguenza di diminuire il numero degli eletti in proporzione al numero di schede bianche. Secondo gli autori sarebbe questo il modo di ridurre democraticamente il numero dei parlamentari, con una precisa rispondenza rappresentativa tra elettori ed eletti, di ridurre conseguentemente la spesa pubblica, ma soprattutto spingerebbe i partiti ad essere rigorosi nella scelta di candidati presentabili di cui, di questi tempi, c’è quanto mai bisogno.
Proprio con Ester Tanasso abbiamo parlato del libro, approfondendo alcuni aspetti legati sia alla nostra realtà ma anche all’atteggiamento riscontrato dai partiti in ambito nazionale.
Dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario è cresciuto il numero dei partiti a fronte di un sempre più elevato numero di cittadini che decide di non recarsi alle urne o di lasciare la scheda in bianco. Non crede che si corra il rischio di vivere una democrazia monca?
Il sistema maggioritario, assimilando i partiti in due blocchi contrapposti, offre senza dubbio all’elettore una minore sfaccettatura di rappresentatività e ciò può rendere meno facile, per il cittadino,  il riconoscersi in uno schieramento.  Credo però che il forte astensionismo di questi anni derivi da un disgusto per la politica - intesa nel senso più deteriore - e per ciò che ha saputo esprimere, che ha ragioni molto più gravi di un non perfetto rispecchiamento: si tratta di una vera e propria presa di distanza degli elettori rispetto all’operato della classe politica.
Ad oggi, però, questo conduce assurdamente al perpetuarsi indisturbato di questo stato di cose: il cittadino critico non ha modo di esprimere il proprio giudizio e fasce sempre più cospicue di popolazione vengono escluse dal gioco democratico delle elezioni. E’ una democrazia che zoppica, certamente, e proprio questo campanello d’allarme è il punto di partenza del mio libro.
Nel libro redatto con Alessandro Tessari propone tra l'altro che le schede bianche siano (seppur con accorgimenti) rappresentative di altrettanti banchi vuoti in Parlamento. Quali critiche ha ricevuto dal mondo politico?
Abbiamo presentato il libro agli inizi di luglio a Roma nelle sale della Biblioteca della Camera dei Deputati, invitando a parlarne alcuni parlamentari dei diversi schieramenti.  Non si sono dimostrati entusiasti, naturalmente: nessuno è disponibile a segare il ramo su cui è seduto! Al di là, però, della preoccupazione per l’”eversività”, a loro dire, della proposta, che ne è invece secondo me l’aspetto più apprezzabile, posto che, proprio a fronte dell’inamovibilità della nostra classe dirigente, da essa scaturirebbe una riduzione democratica ed un rinnovo effettivo degli eletti - determinato dai cittadini - non ho ascoltato finora critiche sostanziali, di carattere tecnico-giuridico, all’applicabilità di questo sistema, che è l’aspetto a cui sono più interessata. In compenso, mi ha divertito sapere di ministri dell’attuale governo tecnico che hanno letto il libro con un certo interesse...
Esistono in altri paesi democratici esempi di questo genere?
Dal 1976 nel Nevada la scheda elettorale riporta anche la casella “Nessuno di questi candidati”. E’ un modo per esprimere esplicitamente la propria bocciatura partecipando al  voto, anche se poi non ha incidenza sul numero degli eletti. Va però ricordato che negli Stati Uniti l’ordinamento prevede le elezioni primarie, nonché l’istituto del recall che permette ai cittadini di destituire i funzionari pubblici in corso di mandato, laddove ne disapprovino le scelte.
Oggi esiste un sentimento radicato e dichiarato contro i rappresentanti delle istituzioni e della politica mai registrato in passato che viene chiamato "antipolitica". Secondo lei è frutto di una classe politica sempre più spesso inefficiente ed inefficace oppure è un fenomeno esistente da sempre nel nostro Paese ma che negli ultimi sessanta anni è stato mascherato dapprima dalla lotta tra ideologie contrapposte e poi dall'allarme democratico Lega/Berlusconi?
Credo invece che tutto ciò che viene definito antipolitica sia, al contrario, politica allo stato puro. Ogni volta che i cittadini fanno sentire civilmente le loro ragioni o le loro critiche siamo di fronte ad un gesto politico. Anzi, al motivo per cui la politica esiste.
La classe politica italiana è, invece, talmente abituata a vedere se stessa esclusivamente come un nucleo di accentramento del potere, da rifiutare qualunque confronto con chiunque, a vario titolo, “disturbi il manovratore”.
La parola “strumentalizzazione” ha accompagnato tutto il dibattito politico di questi anni, neutralizzando così qualunque possibilità di dialogo costruttivo e di critica civile, fino al conio del termine “antipolitica” che esclude dal gioco, ora in partenza, così etichettandolo,  chi semplicemente esprime un dissenso.
La riduzione del numero dei parlamentari o quella delle assemblee elettive regionali rivela iter legislativi e burocratici dai tempi lunghissimi. In Italia la classe politica, secondo lei, possiede nel suo Dna la forza di autoriformarsi?
Temo che, compiendo un fatale errore di valutazione, la classe politica non abbia ancora realmente percepito l’urgenza e la necessità di tale rinnovamento. D’altra parte, in presenza di una legge elettorale che ha spezzato il legame di rispondenza e di responsabilità degli eletti nei confronti dei cittadini, oggi, a quanto vedo, il beau geste di una riforma si limita alle parole e agli auspici. Ma mi auguro con tutto il cuore di essere contraddetta.
Per ovvi motivi conosce il Molise. E' legittimo poter immaginare oggi una regione di poco più di trecentomila abitanti che vive molto spesso di politica? Un consigliere regionale ogni 10 mila abitanti, a fronte della Lombardia che ne ha uno ogni 120 mila?
Conosco il Molise perché sono molisana! Sono nata, vivo e lavoro qui. In effetti, bisognerebbe chiedersi se, in Molise, sia stata la politica a fagocitare la regione o se invece sono stati i molisani a consegnarsi alla politica e a credere a questo “modello di sviluppo”. Ad ogni modo, il risultato è sotto i nostri occhi. Non credo possiamo ancora permetterci i costi di questo sistema. Le riduzioni e gli accorpamenti saranno, ritengo, inevitabili. Confido molto, però, nel fatto che i molisani sapranno fare politica col loro lavoro e sempre meno della politica il loro lavoro.