sabato 26 luglio 2014

GIOVANI GIOVANOTTI GIOVINASTRI 20.1 - 20 ANNI FA, IL FUTURO

« Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei!. »
(Moby Dick, Cap. 135)
C’era una volta, anzi no.  Non è una favola quella che voglio raccontare, quanto una storia personale e collettiva che questa città ha vissuto nella prima metà degli anni ’90, quando prosciugato lo stagno generazionale ed ideologico degli anni lunghi del riflusso, si venne a creare per motivi ignoti una visibilissima isola di creatività, impegno e bisogni sociali. Un lampo, una fuga, una tensione, un percorso lungo quattro anni e poi interrotto e mai più ripreso, dimenticato, abbandonato, costretto all’oblio forse per volontà dei suoi stessi protagonisti.
Una circostanza che riporta alla memoria un altro avvenimento relativo alla città e che costituisce una similitudine temporale che, come una palla matta scagliata nei decenni passati, giunge nell’odierno per destare anime e sensibilità nuove. Un sasso nello stagno che può avere effetti sconosciuti alla fisica. Eravamo tutti alla caccia della nostra personale Moby Dick e non ricordavamo che in città, in effetti, una balena era arrivata tanti anni fa, solo per pochi giorni, ma tutti avevano dimenticato da dove venisse e dove fosse finita.
“Apparizione misteriosa, terribile e meravigliosa, tratta dalle profondità dell’Oceano da un arpione, eviscerata, riempita di formalina, deposta su un semirimorchio e in viaggio per l’Europa continentale, oltre la Cortina di Ferro, in Grecia e in Israele e infine in Italia. Per svanire infine in un buco nero, forse comprata da un circo spagnolo e arenata per sempre in Catalogna… Il passaggio della balena Goliath a Campobasso, nel dicembre 1972, riaffiora dalle memorie infantili di una generazione come un sogno perduto e ritrovato. Il fugace passaggio di una creatura mitologica che oggi appare come l’archetipo di un immaginario fantastico che, per una stagione altrettanto breve, si è sperato che potesse andare al potere. Al potere sono poi andati ben altri immaginari ma la Balena potrebbe finalmente riemergere dalle profondità del tempo e tornare. Per riscattare la sua maestosa alterità liberandosi - e liberandoci - dalle catene che per troppi anni l'hanno imbrigliata. Nell’attesa, aspettiamo di ricostruire insieme la memoria di Goliath a Campobasso, chiusa in un semirimorchio posto a piazza Savoia, davanti all’ingresso della Villa Comunale, di fronte al Jolly Hotel.”
Venti anni sono trascorsi dall’inizio di una avventura chiamata “Giovani Giovanotti Giovinastri”. Ma come si misurano venti anni? Ad esempio trascorsero venti anni tra la fine della seconda guerra mondiale e l’uscita di “Rubber Soul” dei Beatles, oppure tra la morte di Giorgiana Masi sul ponte Garibaldi a Roma e l’uscita del film  “Full monty”. La misura del tempo e le sue percezioni possibili appartengono al collettivo o al personale? Oppure ad un personale collegato ad un collettivo? Sbrogliare la matassa del tempo è impresa difficile ma se il sentiero si apre camminando, essersi rimessi in cammino è almeno esercizio salutare. Giovani Giovanotti Giovinastri 20.1 guarda al futuro. Si tornerà per quattro giorni a parlare di universi che si espandono ancora allontanandosi da quelli in decrescita (infelice), ripercorrendo gli anni che hanno diviso ed unito ancora una volta. 
“Ci siamo riuniti dopo una mail che io inviai un anno fa a tutti gli organizzatori delle edizioni di ggg. Ci dicemmo che erano passati 20 anni. in questi vent'anni ognuno ha fatto il suo percorso, ma di quella esperienza cosa è rimasto? Dove sono i giovani a cui volevamo lasciare la staffetta? Allora riproviamoci ancora, dopo 20anni ci riproviamo. Autofinanziati, no a soldi pubblici, si all'idea che ggg è sempre con lo sguardo al futuro. Guardiamo avanti, non indietro. Non siamo autoreferenziali ma buttiamo ancora una volta la pietra in uno stagno, che sia la volta buona?”
Sarà dunque tempo di confrontarsi per parlare di venti anni fa, il futuro. Ci saranno tutti, insieme ad ospiti come Marco Philopat, Il Duca, BK Bostick e Lucia Vitrone. “Perché sogni, utopie e realtà di ieri ci accompagneranno nel prossimo futuro, quello a cui siamo interessati, quello per cui lavoriamo, quello per cui GGG 20.1ha la sua ragion d’essere.” Due mostre troveranno spazio nelle nuove strutture culturali nate negli ultimi venti anni. Nell’ex Onmi la mostra antologica di tutte le edizioni di Giovani Giovanotti Giovinastri 1993 – 1996 con fotografie, articoli, documenti video, oggetti, materiale promozionale relativo al festival. Negli spazi dell’ex Gil arriva a Campobasso la mostra “Bhap!”: “Beat Hippy Autonomi Punk”,  realizzata da Marco Philopat e Giancarlo Mattia con la collaborazione della Casa delle Culture di Cosenza. Un’esposizione, costituita da 126 pannelli, dedicata alle controculture e ai movimenti, i cui materiali utilizzati provengono dai due archivi – quello di Giancarlo è semplicemente infinito – con il supporto dell’archivio Primo Moroni e di quello della casa editrice ShaKe.
“Una mostra sulle controculture e i movimenti che a partire dagli anni Cinquanta hanno popolato la nostra vita, che hanno segnato il tempo e sognato di andare fuori dal tempo, che hanno stravolto il modo di vivere e quindi anche la politica, che hanno tentato di separarsi dalle separazioni per allargare l’area della coscienza e assaltare il cielo.”
L’evento finale al Blue Note con un evento multisensoriale scritto da Leopoldo Santovincenzo, attuale responsabile programmazione cinema RAI4, critico cinematografico e mente di Giovani Giovanotti Giovinastri. Un evento che coinvolgerà musicalmente musicisti, dj e performer che attraversarono quei momenti. Ma è presto per raccontare ancora tutto. Dal 9 al 12 settembre potrebbe accadere l’imponderabile. 

Il bollettino del ministero degli esteri di Giovani Giovanotti Giovinastri è sulla pagina facebook www.facebook.com/pages/Giovani-Giovanotti-Giovinastri/220369341475982?ref_type=bookmark

venerdì 25 luglio 2014

EDDIE LANG FESTIVAL, ITINERANTE E BRIOSAMENTE JAZZY

Il legno per la costruzione dei suoi strumenti non mancava dalle parti di Monteroduni, in provincia di Isernia. Domenico Massaro, liutaio esperto, non avrebbe mai potuto neanche lontanamente sospettare che il suo giovane pargolo Salvatore, sarebbe entrato nella storia della musica mondiale, divenendo modello per generazioni di chitarristi jazz e ispiratore di un longevo festival jazz proprio in quella terra che fu costretto a lasciare per emigrare come decine di migliaia di suoi corregionali negli Stati Uniti.
Da ventiquattro anni Salvatore Massaro in arte Eddie Lang viene ricordato proprio a Monteroduni, grazie al lavoro sapiente dell’associazione che porta il suo nome d’arte, riuscendo a portare nella piccola regione star di assoluta grandezza del panorama jazz mondiale. Un lavoro che porta via tempo, energia, risorse ma che anno dopo anno è riuscito a creare un pubblico competente ed affezionato a quei luoghi, arricchendo il versante didattico con seminari, workshop e concorsi dedicati alla chitarra jazz e quello propriamente di spettacolo con cartelloni di assoluta qualità al pari di rinomati festival italiani ed europei. Michel Petrucciani, John Scofield, Jim Hall, Art Ensemble of Chicago, Idris Muhammad, Joey DeFrancesco, Marcus Miller, John Abercrombie, Bireli Lagrene, Stanley Jordan: questi solo alcuni nomi che dal 1991 hanno calcato il palco del festival, insieme alle migliori esperienze jazz solistiche e di formazioni provenienti da tutto il mondo e dal nostro Belpaese.
La nuova edizione che avrà inizio tra qualche giorno sembrerebbe essere quella del definitivo cambiamento, dopo un lavoro di confronto con il territorio e le istituzioni, per fare dell’Eddie Lang Festival il secondo festival jazz in Italia in ordine di importanza. Questo è quanto riscontrato dalle parole di Giovann Mancini, presidente dell’associazione Eddie Lang che, questa mattina, nella sede della Giunta regionale ha presentato la nuova edizione ricca di importanti star internazionali ed italiane che calcheranno per la prima volta le piazze ed i luoghi più belli di numerosi comuni molisani. Una edizione itinerante, condotta con la collaborazione dell’associazione culturale Vianova, che intende portare – secondo il vicepresidente Massimo Petrarca - il jazz (spesso riveduto e corretto in chiave pop) nel cuore dell’estate molisana, coniugando bellezze architettoniche e paesaggistiche con i migliori prodotti provenienti dalle eccellenze del territorio e con cene spettacolo preparate da rinomati chef molisani. Qualche nome dell’edizione: Manhattan Trasfer, James Taylor Quartet, Eumir Deodato, Nicola Conte, Montefiori Cocktail, Hanna Williams and the Tastemakers. Un approccio popolare meno rigoroso verso un genere musicale considerato d’elite ma che, in tutto il mondo, conta numeri decisamente interessanti in flussi turistici ed economici e che comunque trova radicamento nella regione, grazie al lavoro svolto da altre esperienze del territorio come Jazz in campo (Campodipietra), San Giazz Festival (San Giacomo degli Schiavoni) oltre ai defunti Toquinho Festival (Toro), Festival dell’Adriatico (Termoli) o a Campobasso nell’attività della scuola Thelonious Monk diretta da Gianclaudio Piedimonte o in quella artistica di decine e decine di musicisti che spesso valicano i confini molisani come il batterista Luca Santaniello (Juliard School N.Y.), il chitarrista Luca Tozzi (bluesman a New York) o Chara Izzi, eccellente vocalist impegnata negli States, ospite quest’anno in Germania del prestigioso Jazzahead Festival. Decisamente reattivo il presidente della Giunta regionale Paolo Frattura, in polemica con alcune dichiarazioni provenienti dall’opposizione. ““L’Eddie Lang Festival Jazz e le altre rassegne che abbiamo scelto di sostenere per la qualità della proposta messa in campo – ha proseguito Frattura - smentiscono e annullano le varie e diffuse profezie di morte della cultura, dell’arte, della musica in Molise, a causa, nemmeno a dirlo, della disattenzione della Regione. La Regione risponde con i fatti, contribuendo, nell’ambito delle sue competenze e nel rispetto dei ruoli, alla realizzazione di eventi di assoluta importanza per il nostro territorio, come l’Eddie Lang. Questo festival ha un marchio, sinonimo di qualità e di grande musica, una storia e una tradizione. Nonché una capacità di rinnovamento che significa due cose: generosità (rinnovarsi spesso è anche rinunciare a proprie specifiche peculiarità in virtù di un progetto più alto e più ampio) e apertura, nel senso anche fisico del termine: dalla splendida location di Castello Pignatelli di Monteroduni a tante altre piazze del nostro Molise, con l’edizione itinerante di quest’anno: una sperimentazione di luoghi possibile anche grazie alla lungimiranza e alla sensibilità mostrate dai sindaci, in particolare i giovani sindaci, che hanno compreso l’importanza, per le comunità che amministrano, di diventare teatro di un Festival strutturato”.
Parole che confermano l’impegno dell’ente, che deve rispondere però in termini legislativi con una strutturazione e riforma del sistema dedicato a manifestazioni del territorio che coniugano cultura e turismo. Una richiesta venuta da Giovanni Mancini, in conferenza stampa, che ha chiesto certezza dei fondi entro il 2014 per poter programmare sin dall’autunno la prossima edizione consentendo un’adeguata promozione in campo nazionale ed internazionale. Un parametro che dovrebbe essere certamente accolto dalla proposta di legge in preparazione dalla struttura regionale, pronta nell’autunno ad iniziare il suo iter legislativo tra commissioni e consiglio per approntare la riforma del sistema cultura, bisognosa di dinamismo, scelte strategiche e risorse finanziarie.
Il cartellone di concerti della ventiquattresima edizione della Eddie Lang Jazz Festival è reperibile sul sito www.eddielang.org o sulla pagina facebook https://www.facebook.com/eddielangfestival .

mercoledì 16 luglio 2014

Gaetano Meomartino e il Mucchio Selvaggio in Molise


Transitando lungo l’unica arteria stradale che congiunge il Molise centrale alla costa è facile fantasticare l’esistenza di feroci pellirosse e sanguinari banditi nascosti lungo i crinali di certe colline, identiche a quelle immortalate in tante pellicole spaghetti western negli anni ‘70.

Guardando a quanto accaduto tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 nelle campagne della Capitanata che si estendevano tra il nord della Puglia ed il Basso Molise, il paragone esiste, eccome. Come nel Far West sporco, povero e feroce di Sergio Leone, nella nostra storia locale non meno sporca, povera e feroce di quella narrata dal regista di “Per un pugno di dollari”, sono esistiti personaggi dalle personalità complesse, veri e propri antieroi, che hanno vissuto, ucciso e fatto uccidere senza troppi scrupoli.
La storia di Gaetano Meomartino, capo di una compagnia di mercenari a cavallo, è una di queste. Personaggio inquieto, Meomartino è una sorta di primula rossa che ha saputo navigare per quasi venti anni tra l’occupazione francese del Regno di Napoli, la carboneria, la corte borbonica a Palermo e i sanfedisti, venendo trucidato dalle Regie Milizie del Molise residenti ad Ururi (comune arbreshe molisano), insieme ai suoi fratelli e alla sua banda di contractors ante litteram. Non un semplice brigante, dunque.
 “Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionari governativi, magistrati perfino; e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.” Così scriveva lo storico Giambattista Masciotta nel quarto volume dell’opera “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” nel 1952, raccontando le gesta del Meomartino.

Lo storico racconta con dovizia di particolari tutta la vicenda che ebbe addirittura l’opportunità di essere immortalata  nel film “L’ultima carica” del 1963, per la regia di Leopoldo Savona. Il soggetto narra di una storia d’amore nata tra il brigante - patriota Rocco Vardarelli (Tony Russell) e Claudia (Haya Harareet), una bella aristocratica, ai tempi della dominazione francese. Nel cast anche un giovanissimo Oreste Lionello e Bruno Corbucci alla sceneggiatura.

 Ma chi era Gaetano Meomartino e perché la sua banda era chiamata dei Vardarelli? Nato il 13 gennaio 1780 a Celenza Valfortore, viveva a Castelnuovo delle Daunia quando fu chiamato nelle fila dell’esercito dalle circoscrizioni murattiste. “Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati” scriveva Masciotta, Meomeartino fuggì in Sicilia come disertore ben sapendo che la Corte borbonica accoglieva tutti i “profughi” del continente, senza spesso indagarne le origini. Un fuga che durò qualche anno prima di dover fuggire per evitare la galera.

Tornato nella sua terra d’origine si mise alla testa di una numerosa banda di malviventi che, secondo le cronache, montava buoni cavalli ed era fornita delle migliori armi in circolazione. Meomartino era smanioso di dare fastidio all’occupazione francese, convinto della prossima restaurazione dei Borboni sulla terraferma. Da Napoli milizie scelte furono inviate per affrontare la banda dei Vardarelli ma la banda “si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata”, e Gaetano tornò nuovamente in Sicilia dove i suoi delitti furono considerati ottimi requisiti nei confronti dell’usurpatore francese e dove venne nominato Sergente del Corpo delle Guardie.

 Arrivò la restaurazione borbonica che non tenne fede alla promessa di una riforma agraria e Meomartino nello stesso anno (era il 1815) disertò nuovamente per mettersi a capo di una banda ancor più numerosa, insieme ai fratelli Giovanni e Geremia. I Vardarelli contavano cinquanta uomini a cavallo: in breve tempo, scrive ancora il Masciotta “acquistò funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie.” Fu così che il nome della banda divenne popolare. Con la base situata nell’alta valle del Fortore, Meomartino faceva partire rapide incursioni in Capitanata, Molise, Irpinia, Terra di Bari e Terra d’Otranto, giungendo ad accordarsi politicamente anche con il prete brigante Don Ciro Annicchiarico.

 Il nome della banda derivava dal mestiere del padre dei Meomartino che era un vardaro, un costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; i figli del "vardaro" erano ovviamente i "vardarielli". Nonostante tutti gli sforzi il governo borbonico non riuscì a fermare la banda che conquistava sempre più le simpatie delle masse rurali ma anche quelli della Carboneria: secondo il Masciotta Meomartino infatti “rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione.”

 Pur di tenere buona una provincia sterminata e ricca per le sue magioni, il governo borbonico nel 1817 tratta con la banda, concedendo il perdono. E’ il ministro di polizia, il marchese Luigi de Medici, a trasformare la banda in squadriglia autonoma di armigeri, sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati a Gaetano Meomartino. Una sorta di contractors ante litteram, una pratica comune nel passato (basti pensare a come la corona inglese si era avvalsa dei corsari nella lotta contro gli spagnoli), che in breve tempo ripulirono la Capitana da tutti i malviventi.

Questa posizione controversa era vissuta in maniera guardinga dalla banda che comprendeva la stranezza della propria situazione giuridica e morale. Correva voce, inoltre, che l’onta della nomina sarebbe stata presto lavata con il piombo e non con il denaro promesso. Malgrado ciò, scrive Masciotta “Il Governo centrale… non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.” Il pretesto si presenta quando i Vardarelli rifiutano di essere trasferiti a Sora per sedare una rivolta dei militari all’interno della fortezza di Gaeta. Essi non volevano, infatti, allontanarsi dalle loro terre. Il re, però, considera il rifiuto come un atto di diserzione e decide la fine della banda. Il generale Church riceve il comando delle forze per la repressione del brigantaggio e si trasferisce a Barletta, dove insedia il suo quartier generale. La capitolazione della banda arrivò per puro caso.

Meomartino spesso si fermava ad Ururi per fare rifornimenti, cittadina che da venti anni era scossa da una faida tra due importanti famiglie: gli Occhionero ed i Grimani. Una faida nata durante l’occupazione francese che vedeva protagonista il comandante delle truppe francesi di passaggio che, ospite nella casa di Nicola Grimani, aveva superato il limite imposto dalla convenzioni locali riguardo alla cortesie nei confronti della moglie dell’Occhionero, dirimpettaio del Grimani. Da qui nacque un alterco tra il comandante francese e lo stesso Occhionero che finì schiaffeggiato. “Nell'animo dell'oltraggiato – scriveva il Masciotta - sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.” 

Come nel Mucchio Selvaggio le incursioni dei Meomartino si fecero sempre più truculente: nel corso di questa rivalità i Vardarelli, alleato con Emanuele Occhionero poiché Gaetano aveva battezzato la figlia Giacinta, avevano ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vacche; una terza volta avevano dato fuoco ai campi coltivati e, l’ultima, avevano violentato tutte le donne di casa dinanzi agli uomini legati. Episodi che reclamavano vendetta: i Grimani allertarono dalla vicina Portocannone il distaccamento delle Regie Milizie del Molise al comando del tenente Nicola Campofreda. Meomartino, del resto, era diventato una presenza difficile da gestire anche per lo stesso Occhionero che era infastidito dalle sue frequenti visite. Non solo, lo stesso Occhionero ormai veniva descritto dai suoi nemici come manutengolo, ricettatore e marito “paziente”.

 La morte di Gaetano Meomartino arriva dunque la mattina del 9 aprile 1818 durante una rivista della squadriglia in piazza, proprio dinanzi la casa dei Grimani. Prima i colpi di moschetto, poi la scarica di fucileria. Restano sullo sterrato sette cadaveri crivellati di proiettili: si tratta di Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella. Dall’agguato fuggirono trentanove gregari che, nonostante la latitanza, vennero richiamati a Foggia dal generale Amato, comandante della Provincia, affinchè in ossequio al Regio Decreto che ne aveva fatto una squadriglia di armigeri, eleggessero un nuovo capo.

Una chiamata che rivelò presto un tranello per sconfiggere definitivamente la banda che, accerchiata nuovamente dalle truppe regolari, lasciò sul campo nove morti. Circa una decina, tra i più destri, riuscirono invece a fuggire in sella ai propri cavalli, altri venti si rifugiarono in una vecchia cava dove precipitarono e trovarono la morte asfissiati poiché i soldati gettarono materiale infiammabile per stanarli senza successo.
“Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata – scriveva il Masciotta - sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Così fini la gesta dei Vardarelli.”

I DOCUMENTI UFFICIALI Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta: "Ururi, 9 aprile 1818" Sig. Sotto - Intendente, "Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perché nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacché ora mi trovo nella massima confusione. "Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costì mandarlo.
 Il Sindaco Giovanni Musacchio

 Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece: "Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
 "Firmato "
Pasquale Schiavone Economo Curato

martedì 15 luglio 2014

"Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario"


Giovedì 17 luglio alle ore 19,00 presso il Blow Up Cafè, grazie ai ragazzi della Soupy Records, insieme a Vladimiro Cotugno (giornalista de Il Corriere dello Sport) e a Lorenzo Iervolino, scrittore del collettivo romano Terranullius, autore del libro "Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario", parleremo del poeta calciatore, della sua vita, della democrazia corinthiana e del Brasile,di calcio romantico fatto di colpi di tacco, impegno sociale, divertimento, laboratorio politico, irriverenza, allegria. A seguire aperitivo e dj set funky tropicalista con le mie selezioni su vinile. Beh...dico... partecipate no o siete diventati tutti crucchi?


martedì 1 luglio 2014

Ricordando Nino Agostino e Ida Castelluccio: i misteri del delitto di Villagrazia di Carini

Ho conosciuto Palermo partecipando alle numerose manifestazioni che, anno dopo anno, in qualsiasi stagione ed in gran parte dei quartieri della città si tengono per ricordare i caduti della guerra alla mafia. Esiste infatti una sorta di percorso della memoria (che non si trova in nessuna guida turistica) che vede le lapidi ed i cippi di magistrati, giornalisti, poliziotti, carabinieri, commercianti, imprenditori, militanti politici, uccisi per mano della mafia. “Chi è quell’uomo con quella lunga barba bianca?” domandai ingenuamente alla mia futura moglie in una manifestazione alla fine degli anni ’90. “E’ il papà di Agostino” rispose Roberta. Davo per assodato che Agostino fosse un suo amico. Non era così.


L’uomo dai lunghi capelli e dalla barba bianca è Vincenzo Agostino, padre dell’agente Antonino Agostino che, insieme alla giovane moglie Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi, furono assassinati nei pressi di Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989. Da allora Vincenzo non si è più rasato per protesta, giurando sulla bara del figlio, finché non verrà fuori tutta la verità sulla morte di Nino e di sua moglie. Oggi 1 luglio 2014 la famiglia Agostino ha voluto ricordare i 25 anni di matrimonio di Antonino e Ida avvenuto il 1 luglio 1989, attraverso un’iniziativa pubblica che si terrà nella Parrocchia S. Gaetano in Via Brancaccio. Una cerimonia di festa per celebrare la vita dei due giovani sposi assassinati da Cosa Nostra, attraverso la musica, la poesia, i tanti momenti di preghiera e di lettura e dibattito. Anche a Villagrazia di Carini, sul lungomare Cristoforo Colombo, esiste una targa apposta tre anni fa che ricorda l’uccisione dei due coniugi. Ma che accadde il 5 agosto 1989? Antonino Agostino, detto Nino era un poliziotto ed agente del Sisde, il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, un servizio dell’intelligence italiana in attività fino alla riforma del 2007, quando è stato sostituito dall’Aisi (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Una sigla che ritroviamo in tanti scandali politici in cui rimase coinvolta negli anni ’80, i cui vertici comparirono nella lista degli iscritti alla loggia P2.
Quel giorno Antonino non era armato: doveva festeggiare il compleanno di sua sorella in una delle tante ville e case di campagna che fanno di Villagrazia un enorme agglomerato urbano senza nomi di strade, numeri civici e servizi. Quel giorno mentre si apprestava ad entrare in una di quelle ville insieme alla moglie Ida, un gruppo di sicari in motocicletta cominciò a sparare contro la coppia. Agostino venne colpito da vari proiettili, mentre la Castelluccio venne ferita da un solo colpo: quando i famigliari si precipitarono fuori dall’abitazione erano entrambi già morti. Agostino stava indagando sul fallito attentato dell’Addaura, una fascia di Palermo che circonda Monte Pellegrino sul lato mare, dove risiedeva il giudice Falcone per il periodo estivo. La mattina del 21 giugno 1989, gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono 58 cartucce di esplosivo, di tipo Brixia B5, all'interno di un borsone sportivo,  accanto ad una muta subacquea e delle pinne abbandonate, nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato, che aspettava i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann con cui doveva discutere sul filone dell'inchiesta "pizza connection" che riguardava il riciclaggio di denaro sporco. L'esplosivo era stipato in una cassetta metallica, ed era innescato da due detonatori. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: all'epoca ciò fu attribuito ad un fortunato caso (si parlò di un malfunzionamento del detonatore)
Agostino aveva forse scoperto qualcosa di importante su quel borsone-bomba dell'Addaura e per questo è stato eliminato. La notte dell’assassinio, alcuni ignoti "uomini dello Stato" riuscirono ad entrare nell'abitazione dei coniugi defunti e fecero sparire degli appunti che riguardavano delle importanti indagini che stava conducendo l’agente del Sisde. Ai funerali della coppia tenutisi il 10 agosto 1989, erano presenti sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino. Fu lo stesso Falcone, durante il funerale a dire ad un suo amico commissario “Io a quel ragazzo gli devo la vita”.
Sui moventi dell’assassinio di Nino Agostino e di sua moglie è calata una delle tante cappe oscure che hanno contraddistinto la lotta contro Cosa Nostra in Sicilia. Lo stesso Pm Nino Di Matteo sostiene come ci si scontri costantemente con innumerevoli reticenze da parte di uomini delle istituzioni, nonostante non ci sia un segreto di stato sul caso dei coniugi Agostino.
Dopo il duplice omicidio fu Arnaldo La Barbera, ex-questore di Palermo, ad indirizzare le indagini verso un movente “passionale”, sequestrando tutto il materiale dell’inchiesta di Agostino nonché quanto trovato a casa dei due novelli sposi. Nella squadra investigativa ebbe un ruolo il funzionario di polizia Guido Paolilli, tra l’altro amico e collega di Nino, testimone in favore di Bruno Contrada, allora capo dei servizi segreti, nel processo a suo carico. Paolilli, poi indagato per favoreggiamento nel 2011, venne intercettato mentre confessava al figlio di aver distrutto le carte nella casa dei coniugi Agostino. Lo stesso Paolilli confessò al padre di Nino che “la verità non gli avrebbe fatto piacere, e che durante la terza perquisizione nella casa del figlio, aveva requisito 6 fogli che avrebbe voluto fargli leggere.” Documenti mai letti da Vincenzo Agostino che, nelle sue testimonianze, ha ricordato agli inquirenti di un biglietto trovato nel portafogli del figlio nel quale c’era scritto “Se mi succede qualcosa, andate a cercare nell’armadio di casa». L’armadio, nel corso delle due perquisizioni accertate dalla Questura, fu trovato ufficialmente vuoto.
Nell’agosto 2011  oltre a Paolilli è stato indagato Antonio Daloiso, ex-capo di gabinetto dell'Alto Commissariato antimafia, ex Prefetto di Messina e Reggio Calabria oggi in pensione e tale Aiello - agente di polizia - anche lui in pensione. Sembra che entrambi avessero contatti con il boss Gaetano Scotto. L’iscrizione nel registro delle indagini della Procura di Palermo è arrivata grazie alla testimonianza di Ignazio D’Antone, condannato per mafia e ancora oggi detenuto, detto “Il bruciato” e del pentito Vito Lo Forte detto “lo zoppo”, che avrebbe riconosciuto Aiello in una foto del 2009.
Manifestazione Agende Rosse - Via D'Amelio - Palermo 2012
Secondo Lo Forte sia Daloiso che Aiello facevano parte di un complotto per uccidere Falcone nella sua casa di mare nell'Addaura e che Agostino era uno “007” infiltrato, ucciso per aver aiutato  Emanuele Piazza a sventare l’attentato al giudice - anche lui giovane agente del Sisde che si occupava di scovare i latitanti, assassinato nel marzo del ’90 ed il suo corpo mai più ritrovato. Tra le altre testimonianze quella del  pentito Oreste Pagano, che racconta di aver saputo da terzi, nel corso di un matrimonio in Canada, che il boss Gaetano Scotto aveva ucciso Agostino e la moglie poiché stava indagando sui rapporti tra le cosche ed alcuni componenti della questura. “E’ stato ucciso – ha dichiarato Pagano - perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei.”
La verità su questo duplice assassinio, forse dimenticato dai media, probabilmente non verrà mai alla luce. Troppe le resistenze, i depistaggi, il calo di attenzione dell’opinione pubblica e della stessa magistratura dopo venticinque anni. Ed allora oggi si festeggia la loro vita o quella che sarebbe stata con i loro venticinque anni di matrimonio. Probabilmente il modo migliore per ricordare Antonino Agostino e Ida Castelluccio, dato che ormai gli assassini potranno godere della prescrizione. A ricordarci di queste due giovani vite resta la tenacia dei genitori di Antonino Agostino ed i capelli e la barba bianca da patriarca biblico di Vincenzo Agostino che sicuramente incontrerò nuovamente in Via D’Amelio per ricordare ancora una volta il giudice Borsellino.