venerdì 26 dicembre 2014

SINFOROSA MASTROGIUDICE, LA PRIMA DONNA IMPRENDITRICE DEL MOLISE

Grano e donna nel Molise rappresentano un connubio con precedenti illustri. Se l’attuale management della più grande industria pastaia regionale si concentra nella presenza competente, spigliata, moderna e comunicativa di Rossella Ferro, nel diciottesimo secolo ebbe medesima importanza quella di Sinforosa Mastrogiudice, marchesa di Pietracatella. 

Figura straordinaria di donna imprenditrice in un’epoca scritta al maschile, importante per la storia del Contado, Sinforosa Mastrogiudice è stata titolare di uno dei più vasti stati feudali della prima metà del 1700, attuando importanti investimenti economici e creando condizioni di benessere e sviluppo nelle terre amministrate, oggi a cavallo tra Molise, Puglia e Campania. 
Secondo il Galanti nel 1778 la popolazione del Sannio registrò un tasso di incremento pari all’11 per mille e nel Contado di Molise l’aumento continuò anche nel decennio successivo, mostrandosi più consistente proprio nel sud della regione e nei circondari della valle del Fortore, in particolare. Qui si registrò un buon incremento della produzione di cereali in larga misura destinata al mercato, quindi sensibile ai buoni prezzi del grano di quegli anni. 
Il Contado di Molise, infatti, nella sua marginalità ottenne, sul finire del XVIII secolo, un discreto ruolo nell’economia complessiva del Regno di Napoli, arrivando ad essere una zona di raccordo tra aree economiche differenti ma complementari tra loro, che comprendeva la piana del Tavoliere, le zone collinari e montuose dell’Abruzzo, il Beneventano e la Terra di Lavoro, fortemente collegati al mercato di consumo della capitale.
Discendente della famiglia Mastrogiudice, titolare dei feudi di Montorio, Bonefro e Montelongo e sposata con Giovan Francesco, della famiglia di origine genovese dei Ceva Grimaldi, marchesi dei feudi di Pietacatella, Telese, Solopaca e Magliano, la giovane Sinforosa dopo la morte del marito avvenuta dopo solo sette anni di matrimonio, con piglio deciso, si rese protagonista di una politica di salvaguardia e consolidamento del potere economico, ma anche dello status e del prestigio che caratterizzavano da decenni il proprio lignaggio di appartenenza e quello maritale, compiendo scelte che portarono all’incremento dei capitali di famiglia e, soprattutto, alla rivalutazione socio-economica di molte aree marginali ricadenti nei feudi sui quali esercitò la sua gestione diretta.
Il Molise era una piccola periferia del Regno, articolata diversamente per assetti colturali e produttivi: la parte nord est del distretto di Larino che era una sorta di appendice del Tavoliere, caratterizzata dalla presenza di boschi, pascoli naturali, e dalla produzione cerealicola in masserie di medie e grandi dimensioni; la zona collinare interna del distretto di Campobasso situata tra l’alta valle dei fiumi Fortore, Tammaro e Biferno, in cui prevalevano le colture cerealicole ed il distretto di Isernia, prevalentemente montuoso e coperto di pascoli naturali, ma non privo di pianure fertili. 
Nonostante queste differenze di quadri naturali e ambientali, la parte più estesa della regione era il pianoro della cerealicoltura situato tra i 500 ed i 900 metri di altitudine. In esso si concentrava la maggior parte delle terre coltivate della provincia di Campobasso e vi si produceva la quantità di gran lunga più importante di cereali consumati in loco e inviati in Campania. A conferma dell’elevato livello produttivo di tale zona basti pensare che nel 1770 oltre il 42% del frumento imbarcato e destinato all’annona della capitale Napoli veniva dai porti di Termoli, Campomarino e dalla foce del fiume Fortore, principali centri di raccolta del grano molisano destinato all’esportazione. 
Ceva Grimaldi 
Nel primo Settecento i territori feudali molisani dei Ceva Grimaldi e dei Mastrogiudice si estendevano nella fascia interessata proprio dal corso del Fortore e, nella zona sud-orientale, a confine con l’odierna Puglia. Ai Ceva Grimaldi appartenevano i possedimenti di Gambatesa, Pietracatella, Macchia Valfortore. I Mastrogiudice, invece, gestivano Montorio nei Frentani, Bonefro e Montelongo. Il paesaggio agrario di tali feudi era dislocato a diversi livelli di altitudine, ma in esso la superficie coltivata a grano e orzo, da sempre elementi quasi esclusivi dell’alimentazione di uomini e di parte del bestiame di quelle zone, costituiva una caratteristica fondamentale e un punto di riferimento per ogni altra attività produttiva. Tra il medio e l’alto corso del fiume Fortore si concentravano le terre a seminativo che toccavano quasi il 46% della superficie censita nel distretto di Campobasso; la stessa tipologia di colture copriva tra il 50% e il 67% del totale della superficie, nell’intera zona compresa tra i centri di Larino, Bonefro, Civitacampomarano e Casacalenda. 
Mastrogiudice
Quanto al regime di proprietà fondiaria i Ceva Grimaldi e i Mastrogiudice dovevano fare i conti, in fatto di rendita, con i loro concorrenti confinanti: condizioni che non permettevano commercializzazione se non di prodotti cerealicoli, dato che enti ecclesiastici ed università in genere erano proprietari di boschi e di pascoli, utilizzati come cespiti di entrate o per usi civici. Del resto, il patrimonio fondiario significava rendita fondiaria e erano rari i casi in cui venivano impegni capitali per la costituzione di imprese produttive. La diversità e l’innovazione arrivarono proprio da una figura femminile come la marchesa di Pietracatella Sinforosa Mastrogiudice, che attuò non poche migliorie nei propri possedimenti incrementando il patrimonio grazie anche a cospicui investimenti monetari. 
In quel tempo dalle terre coltivate a cereali i proprietari ricevevano rendite in natura (terraggi) o in denaro (affitti). Le somme derivanti dai terraggi si calcolavano in base all’estensione delle superfici seminate dai coloni e non in relazione al prodotto da essi effettivamente raccolto. Ciò poneva i feudatari al riparo dalle conseguenze di cattive annate in quanto gli anni di carestia rappresentavano per i feudatari buone occasioni per vendere a prezzi più alti quantità di derrate, in media non molto inferiori a quelle ricavate in anni di raccolto normale. Nei feudi d’altura vigevano i terraggi, gli affitti o i contratti di affitto e terraggio. Questa connotazione della rendita, generalmente, indicava che dietro al contratto di riscossione, con il quale si formalizzavano i rapporti tra i feudatari e i contadini, si celava una storia locale e demografica attraversata da colonizzazione, emigrazione, spazi vuoti, territori abitati. Ciò rappresentava la peculiarità del paesaggio agrario molisano, con la sua scarsa produttività naturale; la mancata modernizzazione delle tecniche agricole; le distanze che i prodotti dovevano percorrere per arrivare ai mercati; l’arretratezza culturale delle comunità. Con questa consuetudine i Ceva Grimaldi e i Mastrogiudice, affrontando le congiunture economiche e i danni generati dai fenomeni naturali, avevano gestito le rendite adeguandosi ai sistemi produttivi locali.
In tale contesto venne stipulata l’alleanza tra i due casati mediante il matrimonio dei primogeniti delle due famiglie e che avrebbe portato la giovane Sinforosa Mastrogiudice a gestire il patrimonio di entrambe le casate, rimanendo l’ultima erede di un discendenza feudale che nel Contado sarebbe morta con lei. 
Il Contado di Molise aveva subito una serie di catastrofi naturali (la peste del 1656; i terremoti del febbraio 1703 e del novembre 1706) nonché l’esproprio di ampie porzioni di territori feudali ricadenti nel Contado da parte della Regia Dogana della Mesa delle pecore di Puglia. 
Era questo lo scenario nel quale si trovò ad agire la marchesa Sinforosa Mastrogiudice quando, dopo essere rimasta vedova di Giovan Francesco Ceva Grimaldi ed aver successivamente ricevuto i beni feudali paterni, iniziò ad amministrare i possedimenti dei due lignaggi. Se, generalmente, l’accesso delle donne alle risorse familiari durante la vita coniugale dipendeva grandemente dal regime matrimoniale e successorio, nel Regno di Napoli le norme non penalizzavano drasticamente le figlie anche perché si faceva spesso ricorso alla coutume matrimoniale conforme all’«uso di Proceri e Magnati» che tendeva a valorizzare la posizione della sposa. Grazia a questo Sinforosa, probabilmente, poté dimostrare di essere in grado di amministrare i beni frutto dell’unione patrimoniale delle due famiglie, attraverso competenze acquisite nel tempo grazie probabilmente anche al rapporto solidale e rispettoso che ebbe con il marito fino alla sua morte. Non furono pochi gli scontri con l’Università, tanto che nel 1736 una supplica contro i presunti abusi della feudataria venne presentata al Sacro Regio Consiglio. Le accuse riguardavano la fida a forestieri in alcuni territori demaniali costringendo così gli abitanti del posto a portare i loro animali a pascolare altrove, la proibizione ai cittadini di tenere forni e taverna, la pretesa da ciascun colono di un carro di paglia e da ciascun bracciante un carlino all’anno, la restituzione di alcuni territori che erano stati trasformati da “silvestri e incolti” in campi coltivati pagando alla suddetta il dovuto terraggio, l’intromissione nell’elezione degli Ufficiali dell’Università ed il possesso de frutti del Molino. 
La Marchesa replicava che la fida ai forestieri si era sempre fatta; che il forno e la taverna facevano parte dei corpi feudali e pertanto era suo diritto proibire quelli privati; che per tradizione antichissima ogni contadini dava un carro di paglia ed ogni bracciante un carlino; che i contadini che per tre anni non coltivavano i terreni loro dati ne perdevano il diritto e i proprietari potevano disporne a loro piacere; che in cambio dei frutti del Molino l’Università aveva ottenuto tutta la rendita degli erbaggi della Difesa compresa la terza parte spettante alla feudataria; che mai si era intromessa nella nomina degli Ufficiali; che non aveva costretto i suoi vassalli a lavorare senza ricompensa ma anzi aveva assunto più gente del dovuto mossa a pietà dalla loro miseria.
La querelle andò avanti per vari anni finchè “considerato quanto lungo e dispendioso sarebbe stato il proseguimento di dette liti e desiderando tanto la Signora Marchesa, come affezionata verso i suoi vassalli quanto li cittadini come ossequiosi e rispettosi vassalli verso detta Signora Marchesa … ed anche su la considerazione della commune quiete e vivere con quella reciproca pace, armonia e concordia che tra Padroni e Vassalli deve sempre regnare”, nel luglio del 1742 si arrivò ad un accordo che mi mise pace alla questione.
Nello specifico Sinforosa incrementò il ricavato dei cosiddetti “censi antichi” e dei canoni ad ammontare fisso pagati in denaro. Questo tipo di entrate aveva, più che un valore economico, un significato simbolico perché esse derivavano da antiche cessioni a vassalli tanto di terre, quanto di edifici urbani e rurali di proprietà degli antenati della marchesa la quale, rinunciando a riscattarli, si era creata varie rendite annuali. Se fino a quel tempo le somme versate venivano dilazionate o, addirittura, effettuate attraverso il versamento di beni di consumo, nei feudi ereditati dal padre ed in quelli maritali la Marchesa non mancò mai di ricorrere agli erari locali per riscuotere quei censi di cui, altrimenti, non avrebbe beneficiato. 
Un passo che, evidentemente, nella strategia della Marchesa sembrò non bastare, data anche la reiterata morosità dei vassalli. Da quel momento le attività della Marchesa si dedicarono alla vendita degli animali con cui vennero incrementate ulteriormente le proprie rendite annue. Un progetto che segnò la rivalutazione delle attività economiche del feudo paterno di Montorio dei Frentani che, nei primi decenni del Settecento, caratterizzò una sua profonda trasformazione dovuta in massima parte alla colonizzazione feudale che assunse discrete dimensioni con importanti risvolti sul piano economico e politico, oltre che sociale. 
Su questo processo agirono fattori diversi, il più importante dei quali furono le esigenze della feudataria volte alla riqualificazione della rendita in una congiuntura caratterizzata dalla crescita della domanda cerealicola. Ciò spinse Sinforosa a valorizzare aree marginali e incolte, convertendole alla produzione granaria e facendo ricorso ad una nuova forza lavoro a basso costo disponibile alla migrazione. La cosiddetta licentia populandi si diffuse molto in quel periodo e a Montorio portò addirittura al ripristino di intere aree diroccate del centro storico e alla costruzione di nuove abitazioni.
Sul finire degli anni venti del Settecento la marchesa avviava, quindi, una volontaria azione di promozione e finanziamento di attività agricole e manifatturiere che richiamarono braccianti ed artigiani dai centri limitrofi, i quali si stabilirono definitivamente a Montorio.
Ma la marchesa aveva incrementato la ristrutturazione edilizia dei borghi nei suoi possedimenti colpiti dal sisma del 1703 e del 1706, provvedendo alla ristrutturazione del palazzo baronale che gli eventi calamitosi avevano reso inservibile, attirando dall’alto Sangro e dall’Alto Molise artigiani e maestranze che in seguito si stabilirono in quei borghi, ripristinando beni ad uso della comunità non senza trarne un utile personale in denaro, fino a raddoppiare le rendite provenienti dai diritti feudali. 
Naturalmente le attività economiche della Mastrogiudice incrementarono anche l’arrivo a Montorio di professionisti e uomini di legge per le opportunità di accesso a posizioni di rilievo sociale che il centro garantiva, costruendo una nuova identità culturale e municipale che divenne in quel tempo centro di propulsione amministrativa. 
All’occorrenza la Mastrogiudice forniva prestiti ai vassalli indebitati, o comprava le cambiali dai creditori. Se il vassallo non riusciva a risollevarsi dal momento di crisi, si trovava prima o poi costretto per estinguere il debito e a venderle i propri beni come successe, ad esempio, a Onofrio Fusaro di Macchia Valfortore il quale, nel 1730, per liberarsi dal censo di 28 carlini, rateizzazione di un capitale di 35 ducati che doveva alla marchesa, decise di vendere il «bottaro, seu cellaro, con una grotta di dentro, ed una casa di un membro superiore, com’anche un giardino murato con una misura in circa di territorio, sito e posto nel luogo detto la Porta di Capo», al prezzo di 73.
L’ultimo rogito notarile porta la data del 1742, anno precedente alla sua morte (avvenuta il 25 marzo del 1743), atto con cui Sinforosa sembra gestire ancora in prima persona i propri possedimenti. La floridità economica vissuta da Montorio durante il periodo di amministrazione della marchesa Sinforosa, si conservò nel tempo. 
Così Francesco Longano, nel 1778 in Viaggio per il Contado di Molise, descrivendo la zona riconducibile ai possedimenti feudali di Sinforosa Mastrogiudice, si soffermava sulla qualità delle varietà di grano che vi si coltivavano: «finalmente il terreno notabile migliora in Casacalenda, Montelongo, Montorio. Ma in tali luoghi, fuori della coltura de’ campi, e quella della pastorale, non si dee cercar altro, ancorché i terreni fussero assai propri per uliveti, e per gelsi. Quivi si raccolgono buone caroselle, saravolle, e mischie, e pannelle. La semina del grano d’India non si trascura. L’industria dell’api è scarsa, ma non ci manca. E ciò in quanto al mezzodì del Contado».

Un particolare ringraziamento alla prof.ssa Sonia Fiorilli per il materiale bibliografico e per aver acceso la mia curiosità per Sinforosa Mastrogiudice.

Copyright IL BENE COMUNE

martedì 2 settembre 2014

CHIARA GAMBERALE RIVISITA "ARRIVANO I PAGLIACCI"

DAL 9 SETTEMBRE L'AUTRICE ORIGINARIA DI AGNONE TORNA NELLE LIBRERIE CON LA RIVISITAZIONE DEL SUO ROMANZO GIOVANILE


L'autrice romana proveniente da una importante famiglia di Agnone (Isernia) torna nelle librerie con la rivisitazione del romanzo pubblicato da Bompiani nel 2002 dal titolo "Arrivano i pagliacci". Racconta la storia di Allegra, ventenne che sta per traslocare. Non porterà via alcunché dalla casa, ma scrive una lettera ai nuovi inquilini in cui spiega la sua storia partendo dalla descrizione di ciascun oggetto. "Sentivo il bisogno di narrare la storia di una famiglia tra gli anni settanta e ottanta, raccontare attraverso loro cos'è successo in quegli anni, uccidere il mito della psicanalisi - racconta l'autrice, che confessa che questo romanzo è il primo che la rappresenta appieno.
Un coro di personaggi buffi e allo stesso tempo malinconici. Un romanzo definito magico, attraverso una scrittura lieve e potente. 
«Come posso fare a leggere Arrivano i pagliacci? E' l'unico fra i tuoi libri che non si riesce più a trovare in libreria» ha chiesto un lettore a Chiara Gamberale durante una sua presentazione. Così si è pensato di riproporre questo romanzo - nucleo generativo importantissimo nel suo percorso - revisionato dall'autrice.
«Ho scritto Arrivano i pagliacci quattordici anni fa: avevo ventidue anni, ero alla ricerca pazza di non sapevo neanche io che cosa e quello che scrivevo lo era con me. Quando si fa così il rischio è quello di dare voce a un’urgenza, anziché riflettere bene per dare urgenza a una voce. E forse l’ho corso.» Così scrive nella Nota che chiude questo romanzo Chiara Gamberale, che su quel testo giovanile ha rilavorato con passione. 

La storia
Allegra Lunare ha vent’anni, è nel momento in cui la vita, per molti, comincia: invece per lei finisce, e deve trovare il coraggio per iniziarne una tutta nuova. Allora Allegra scrive: per non avere paura, per salvarsi l’infanzia, per non dimenticare il senso delle persone e delle cose che sono stati il suo mondo fino a quel momento. Scrive una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la casa dove ha vissuto con la sua bizzarra famiglia, e prende spunto dagli oggetti che rimangono nell’appartamento e di quei pochi che porterà con sé. Ognuno di essi racconta una storia: quella di suo padre, universitario rivoluzionario, e della mamma, giovanissima modella americana; la nascita di suo fratello Giuliano, con la sindrome di down; l’amore magico tra Adriana e Matilde; l’incontro strepitoso con Zuellen, che è affamata d’amore e sa trasformare tutto in qualcos’altro; le cose che ha imparato a teatro e al circo, la più importante: che dopo il numero dei trapezi – quando trattieni il fiato e la felicità sembra spezzarsi a ogni passo – arriva sempre il numero dei pagliacci... La scrittura di Allegra procede come il respiro veloce della giovinezza, quando si ha fretta di capire: per libere associazioni, per assonanze del cuore, accostando ai sentimenti cose che ne sono i correlativi oggettivi, e che spesso li esprimono con molta maggior potenza. Il suo sguardo si posa su ogni spazio da una prospettiva inattesa, filtrato dalle lenti colorate con cui ha imparato a osservare la vita per non essere lambita dalle sue ombre: e ci restituisce un’istantanea sorprendente, candida e acutissima al tempo stesso.

L'autrice
Chiara Gamberale è nata nel 1977 a Roma, dove vive. Ha esordito nel 1999 con Una vita sottile (Marsilio), al quale sono seguiti Le luci nelle case degli altri, bestseller internazionale, L'amore quando c'era, Quattro etti d'amore, grazie - tutti per Mondadori - e Per dieci minuti (Feltrinelli). E' autrice e conduttrice di programma televisivi e radiofonici come "Quarto piano scala a destra" su Rai Tre e "Io, Chiara e L'Oscuro" su Radio Due. Collabora con "La Stampa", "Vanity Fair" e "Io Donna".

sabato 26 luglio 2014

GIOVANI GIOVANOTTI GIOVINASTRI 20.1 - 20 ANNI FA, IL FUTURO

« Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei!. »
(Moby Dick, Cap. 135)
C’era una volta, anzi no.  Non è una favola quella che voglio raccontare, quanto una storia personale e collettiva che questa città ha vissuto nella prima metà degli anni ’90, quando prosciugato lo stagno generazionale ed ideologico degli anni lunghi del riflusso, si venne a creare per motivi ignoti una visibilissima isola di creatività, impegno e bisogni sociali. Un lampo, una fuga, una tensione, un percorso lungo quattro anni e poi interrotto e mai più ripreso, dimenticato, abbandonato, costretto all’oblio forse per volontà dei suoi stessi protagonisti.
Una circostanza che riporta alla memoria un altro avvenimento relativo alla città e che costituisce una similitudine temporale che, come una palla matta scagliata nei decenni passati, giunge nell’odierno per destare anime e sensibilità nuove. Un sasso nello stagno che può avere effetti sconosciuti alla fisica. Eravamo tutti alla caccia della nostra personale Moby Dick e non ricordavamo che in città, in effetti, una balena era arrivata tanti anni fa, solo per pochi giorni, ma tutti avevano dimenticato da dove venisse e dove fosse finita.
“Apparizione misteriosa, terribile e meravigliosa, tratta dalle profondità dell’Oceano da un arpione, eviscerata, riempita di formalina, deposta su un semirimorchio e in viaggio per l’Europa continentale, oltre la Cortina di Ferro, in Grecia e in Israele e infine in Italia. Per svanire infine in un buco nero, forse comprata da un circo spagnolo e arenata per sempre in Catalogna… Il passaggio della balena Goliath a Campobasso, nel dicembre 1972, riaffiora dalle memorie infantili di una generazione come un sogno perduto e ritrovato. Il fugace passaggio di una creatura mitologica che oggi appare come l’archetipo di un immaginario fantastico che, per una stagione altrettanto breve, si è sperato che potesse andare al potere. Al potere sono poi andati ben altri immaginari ma la Balena potrebbe finalmente riemergere dalle profondità del tempo e tornare. Per riscattare la sua maestosa alterità liberandosi - e liberandoci - dalle catene che per troppi anni l'hanno imbrigliata. Nell’attesa, aspettiamo di ricostruire insieme la memoria di Goliath a Campobasso, chiusa in un semirimorchio posto a piazza Savoia, davanti all’ingresso della Villa Comunale, di fronte al Jolly Hotel.”
Venti anni sono trascorsi dall’inizio di una avventura chiamata “Giovani Giovanotti Giovinastri”. Ma come si misurano venti anni? Ad esempio trascorsero venti anni tra la fine della seconda guerra mondiale e l’uscita di “Rubber Soul” dei Beatles, oppure tra la morte di Giorgiana Masi sul ponte Garibaldi a Roma e l’uscita del film  “Full monty”. La misura del tempo e le sue percezioni possibili appartengono al collettivo o al personale? Oppure ad un personale collegato ad un collettivo? Sbrogliare la matassa del tempo è impresa difficile ma se il sentiero si apre camminando, essersi rimessi in cammino è almeno esercizio salutare. Giovani Giovanotti Giovinastri 20.1 guarda al futuro. Si tornerà per quattro giorni a parlare di universi che si espandono ancora allontanandosi da quelli in decrescita (infelice), ripercorrendo gli anni che hanno diviso ed unito ancora una volta. 
“Ci siamo riuniti dopo una mail che io inviai un anno fa a tutti gli organizzatori delle edizioni di ggg. Ci dicemmo che erano passati 20 anni. in questi vent'anni ognuno ha fatto il suo percorso, ma di quella esperienza cosa è rimasto? Dove sono i giovani a cui volevamo lasciare la staffetta? Allora riproviamoci ancora, dopo 20anni ci riproviamo. Autofinanziati, no a soldi pubblici, si all'idea che ggg è sempre con lo sguardo al futuro. Guardiamo avanti, non indietro. Non siamo autoreferenziali ma buttiamo ancora una volta la pietra in uno stagno, che sia la volta buona?”
Sarà dunque tempo di confrontarsi per parlare di venti anni fa, il futuro. Ci saranno tutti, insieme ad ospiti come Marco Philopat, Il Duca, BK Bostick e Lucia Vitrone. “Perché sogni, utopie e realtà di ieri ci accompagneranno nel prossimo futuro, quello a cui siamo interessati, quello per cui lavoriamo, quello per cui GGG 20.1ha la sua ragion d’essere.” Due mostre troveranno spazio nelle nuove strutture culturali nate negli ultimi venti anni. Nell’ex Onmi la mostra antologica di tutte le edizioni di Giovani Giovanotti Giovinastri 1993 – 1996 con fotografie, articoli, documenti video, oggetti, materiale promozionale relativo al festival. Negli spazi dell’ex Gil arriva a Campobasso la mostra “Bhap!”: “Beat Hippy Autonomi Punk”,  realizzata da Marco Philopat e Giancarlo Mattia con la collaborazione della Casa delle Culture di Cosenza. Un’esposizione, costituita da 126 pannelli, dedicata alle controculture e ai movimenti, i cui materiali utilizzati provengono dai due archivi – quello di Giancarlo è semplicemente infinito – con il supporto dell’archivio Primo Moroni e di quello della casa editrice ShaKe.
“Una mostra sulle controculture e i movimenti che a partire dagli anni Cinquanta hanno popolato la nostra vita, che hanno segnato il tempo e sognato di andare fuori dal tempo, che hanno stravolto il modo di vivere e quindi anche la politica, che hanno tentato di separarsi dalle separazioni per allargare l’area della coscienza e assaltare il cielo.”
L’evento finale al Blue Note con un evento multisensoriale scritto da Leopoldo Santovincenzo, attuale responsabile programmazione cinema RAI4, critico cinematografico e mente di Giovani Giovanotti Giovinastri. Un evento che coinvolgerà musicalmente musicisti, dj e performer che attraversarono quei momenti. Ma è presto per raccontare ancora tutto. Dal 9 al 12 settembre potrebbe accadere l’imponderabile. 

Il bollettino del ministero degli esteri di Giovani Giovanotti Giovinastri è sulla pagina facebook www.facebook.com/pages/Giovani-Giovanotti-Giovinastri/220369341475982?ref_type=bookmark

venerdì 25 luglio 2014

EDDIE LANG FESTIVAL, ITINERANTE E BRIOSAMENTE JAZZY

Il legno per la costruzione dei suoi strumenti non mancava dalle parti di Monteroduni, in provincia di Isernia. Domenico Massaro, liutaio esperto, non avrebbe mai potuto neanche lontanamente sospettare che il suo giovane pargolo Salvatore, sarebbe entrato nella storia della musica mondiale, divenendo modello per generazioni di chitarristi jazz e ispiratore di un longevo festival jazz proprio in quella terra che fu costretto a lasciare per emigrare come decine di migliaia di suoi corregionali negli Stati Uniti.
Da ventiquattro anni Salvatore Massaro in arte Eddie Lang viene ricordato proprio a Monteroduni, grazie al lavoro sapiente dell’associazione che porta il suo nome d’arte, riuscendo a portare nella piccola regione star di assoluta grandezza del panorama jazz mondiale. Un lavoro che porta via tempo, energia, risorse ma che anno dopo anno è riuscito a creare un pubblico competente ed affezionato a quei luoghi, arricchendo il versante didattico con seminari, workshop e concorsi dedicati alla chitarra jazz e quello propriamente di spettacolo con cartelloni di assoluta qualità al pari di rinomati festival italiani ed europei. Michel Petrucciani, John Scofield, Jim Hall, Art Ensemble of Chicago, Idris Muhammad, Joey DeFrancesco, Marcus Miller, John Abercrombie, Bireli Lagrene, Stanley Jordan: questi solo alcuni nomi che dal 1991 hanno calcato il palco del festival, insieme alle migliori esperienze jazz solistiche e di formazioni provenienti da tutto il mondo e dal nostro Belpaese.
La nuova edizione che avrà inizio tra qualche giorno sembrerebbe essere quella del definitivo cambiamento, dopo un lavoro di confronto con il territorio e le istituzioni, per fare dell’Eddie Lang Festival il secondo festival jazz in Italia in ordine di importanza. Questo è quanto riscontrato dalle parole di Giovann Mancini, presidente dell’associazione Eddie Lang che, questa mattina, nella sede della Giunta regionale ha presentato la nuova edizione ricca di importanti star internazionali ed italiane che calcheranno per la prima volta le piazze ed i luoghi più belli di numerosi comuni molisani. Una edizione itinerante, condotta con la collaborazione dell’associazione culturale Vianova, che intende portare – secondo il vicepresidente Massimo Petrarca - il jazz (spesso riveduto e corretto in chiave pop) nel cuore dell’estate molisana, coniugando bellezze architettoniche e paesaggistiche con i migliori prodotti provenienti dalle eccellenze del territorio e con cene spettacolo preparate da rinomati chef molisani. Qualche nome dell’edizione: Manhattan Trasfer, James Taylor Quartet, Eumir Deodato, Nicola Conte, Montefiori Cocktail, Hanna Williams and the Tastemakers. Un approccio popolare meno rigoroso verso un genere musicale considerato d’elite ma che, in tutto il mondo, conta numeri decisamente interessanti in flussi turistici ed economici e che comunque trova radicamento nella regione, grazie al lavoro svolto da altre esperienze del territorio come Jazz in campo (Campodipietra), San Giazz Festival (San Giacomo degli Schiavoni) oltre ai defunti Toquinho Festival (Toro), Festival dell’Adriatico (Termoli) o a Campobasso nell’attività della scuola Thelonious Monk diretta da Gianclaudio Piedimonte o in quella artistica di decine e decine di musicisti che spesso valicano i confini molisani come il batterista Luca Santaniello (Juliard School N.Y.), il chitarrista Luca Tozzi (bluesman a New York) o Chara Izzi, eccellente vocalist impegnata negli States, ospite quest’anno in Germania del prestigioso Jazzahead Festival. Decisamente reattivo il presidente della Giunta regionale Paolo Frattura, in polemica con alcune dichiarazioni provenienti dall’opposizione. ““L’Eddie Lang Festival Jazz e le altre rassegne che abbiamo scelto di sostenere per la qualità della proposta messa in campo – ha proseguito Frattura - smentiscono e annullano le varie e diffuse profezie di morte della cultura, dell’arte, della musica in Molise, a causa, nemmeno a dirlo, della disattenzione della Regione. La Regione risponde con i fatti, contribuendo, nell’ambito delle sue competenze e nel rispetto dei ruoli, alla realizzazione di eventi di assoluta importanza per il nostro territorio, come l’Eddie Lang. Questo festival ha un marchio, sinonimo di qualità e di grande musica, una storia e una tradizione. Nonché una capacità di rinnovamento che significa due cose: generosità (rinnovarsi spesso è anche rinunciare a proprie specifiche peculiarità in virtù di un progetto più alto e più ampio) e apertura, nel senso anche fisico del termine: dalla splendida location di Castello Pignatelli di Monteroduni a tante altre piazze del nostro Molise, con l’edizione itinerante di quest’anno: una sperimentazione di luoghi possibile anche grazie alla lungimiranza e alla sensibilità mostrate dai sindaci, in particolare i giovani sindaci, che hanno compreso l’importanza, per le comunità che amministrano, di diventare teatro di un Festival strutturato”.
Parole che confermano l’impegno dell’ente, che deve rispondere però in termini legislativi con una strutturazione e riforma del sistema dedicato a manifestazioni del territorio che coniugano cultura e turismo. Una richiesta venuta da Giovanni Mancini, in conferenza stampa, che ha chiesto certezza dei fondi entro il 2014 per poter programmare sin dall’autunno la prossima edizione consentendo un’adeguata promozione in campo nazionale ed internazionale. Un parametro che dovrebbe essere certamente accolto dalla proposta di legge in preparazione dalla struttura regionale, pronta nell’autunno ad iniziare il suo iter legislativo tra commissioni e consiglio per approntare la riforma del sistema cultura, bisognosa di dinamismo, scelte strategiche e risorse finanziarie.
Il cartellone di concerti della ventiquattresima edizione della Eddie Lang Jazz Festival è reperibile sul sito www.eddielang.org o sulla pagina facebook https://www.facebook.com/eddielangfestival .

mercoledì 16 luglio 2014

Gaetano Meomartino e il Mucchio Selvaggio in Molise


Transitando lungo l’unica arteria stradale che congiunge il Molise centrale alla costa è facile fantasticare l’esistenza di feroci pellirosse e sanguinari banditi nascosti lungo i crinali di certe colline, identiche a quelle immortalate in tante pellicole spaghetti western negli anni ‘70.

Guardando a quanto accaduto tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 nelle campagne della Capitanata che si estendevano tra il nord della Puglia ed il Basso Molise, il paragone esiste, eccome. Come nel Far West sporco, povero e feroce di Sergio Leone, nella nostra storia locale non meno sporca, povera e feroce di quella narrata dal regista di “Per un pugno di dollari”, sono esistiti personaggi dalle personalità complesse, veri e propri antieroi, che hanno vissuto, ucciso e fatto uccidere senza troppi scrupoli.
La storia di Gaetano Meomartino, capo di una compagnia di mercenari a cavallo, è una di queste. Personaggio inquieto, Meomartino è una sorta di primula rossa che ha saputo navigare per quasi venti anni tra l’occupazione francese del Regno di Napoli, la carboneria, la corte borbonica a Palermo e i sanfedisti, venendo trucidato dalle Regie Milizie del Molise residenti ad Ururi (comune arbreshe molisano), insieme ai suoi fratelli e alla sua banda di contractors ante litteram. Non un semplice brigante, dunque.
 “Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionari governativi, magistrati perfino; e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.” Così scriveva lo storico Giambattista Masciotta nel quarto volume dell’opera “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” nel 1952, raccontando le gesta del Meomartino.

Lo storico racconta con dovizia di particolari tutta la vicenda che ebbe addirittura l’opportunità di essere immortalata  nel film “L’ultima carica” del 1963, per la regia di Leopoldo Savona. Il soggetto narra di una storia d’amore nata tra il brigante - patriota Rocco Vardarelli (Tony Russell) e Claudia (Haya Harareet), una bella aristocratica, ai tempi della dominazione francese. Nel cast anche un giovanissimo Oreste Lionello e Bruno Corbucci alla sceneggiatura.

 Ma chi era Gaetano Meomartino e perché la sua banda era chiamata dei Vardarelli? Nato il 13 gennaio 1780 a Celenza Valfortore, viveva a Castelnuovo delle Daunia quando fu chiamato nelle fila dell’esercito dalle circoscrizioni murattiste. “Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati” scriveva Masciotta, Meomeartino fuggì in Sicilia come disertore ben sapendo che la Corte borbonica accoglieva tutti i “profughi” del continente, senza spesso indagarne le origini. Un fuga che durò qualche anno prima di dover fuggire per evitare la galera.

Tornato nella sua terra d’origine si mise alla testa di una numerosa banda di malviventi che, secondo le cronache, montava buoni cavalli ed era fornita delle migliori armi in circolazione. Meomartino era smanioso di dare fastidio all’occupazione francese, convinto della prossima restaurazione dei Borboni sulla terraferma. Da Napoli milizie scelte furono inviate per affrontare la banda dei Vardarelli ma la banda “si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata”, e Gaetano tornò nuovamente in Sicilia dove i suoi delitti furono considerati ottimi requisiti nei confronti dell’usurpatore francese e dove venne nominato Sergente del Corpo delle Guardie.

 Arrivò la restaurazione borbonica che non tenne fede alla promessa di una riforma agraria e Meomartino nello stesso anno (era il 1815) disertò nuovamente per mettersi a capo di una banda ancor più numerosa, insieme ai fratelli Giovanni e Geremia. I Vardarelli contavano cinquanta uomini a cavallo: in breve tempo, scrive ancora il Masciotta “acquistò funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie.” Fu così che il nome della banda divenne popolare. Con la base situata nell’alta valle del Fortore, Meomartino faceva partire rapide incursioni in Capitanata, Molise, Irpinia, Terra di Bari e Terra d’Otranto, giungendo ad accordarsi politicamente anche con il prete brigante Don Ciro Annicchiarico.

 Il nome della banda derivava dal mestiere del padre dei Meomartino che era un vardaro, un costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; i figli del "vardaro" erano ovviamente i "vardarielli". Nonostante tutti gli sforzi il governo borbonico non riuscì a fermare la banda che conquistava sempre più le simpatie delle masse rurali ma anche quelli della Carboneria: secondo il Masciotta Meomartino infatti “rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione.”

 Pur di tenere buona una provincia sterminata e ricca per le sue magioni, il governo borbonico nel 1817 tratta con la banda, concedendo il perdono. E’ il ministro di polizia, il marchese Luigi de Medici, a trasformare la banda in squadriglia autonoma di armigeri, sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati a Gaetano Meomartino. Una sorta di contractors ante litteram, una pratica comune nel passato (basti pensare a come la corona inglese si era avvalsa dei corsari nella lotta contro gli spagnoli), che in breve tempo ripulirono la Capitana da tutti i malviventi.

Questa posizione controversa era vissuta in maniera guardinga dalla banda che comprendeva la stranezza della propria situazione giuridica e morale. Correva voce, inoltre, che l’onta della nomina sarebbe stata presto lavata con il piombo e non con il denaro promesso. Malgrado ciò, scrive Masciotta “Il Governo centrale… non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.” Il pretesto si presenta quando i Vardarelli rifiutano di essere trasferiti a Sora per sedare una rivolta dei militari all’interno della fortezza di Gaeta. Essi non volevano, infatti, allontanarsi dalle loro terre. Il re, però, considera il rifiuto come un atto di diserzione e decide la fine della banda. Il generale Church riceve il comando delle forze per la repressione del brigantaggio e si trasferisce a Barletta, dove insedia il suo quartier generale. La capitolazione della banda arrivò per puro caso.

Meomartino spesso si fermava ad Ururi per fare rifornimenti, cittadina che da venti anni era scossa da una faida tra due importanti famiglie: gli Occhionero ed i Grimani. Una faida nata durante l’occupazione francese che vedeva protagonista il comandante delle truppe francesi di passaggio che, ospite nella casa di Nicola Grimani, aveva superato il limite imposto dalla convenzioni locali riguardo alla cortesie nei confronti della moglie dell’Occhionero, dirimpettaio del Grimani. Da qui nacque un alterco tra il comandante francese e lo stesso Occhionero che finì schiaffeggiato. “Nell'animo dell'oltraggiato – scriveva il Masciotta - sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.” 

Come nel Mucchio Selvaggio le incursioni dei Meomartino si fecero sempre più truculente: nel corso di questa rivalità i Vardarelli, alleato con Emanuele Occhionero poiché Gaetano aveva battezzato la figlia Giacinta, avevano ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vacche; una terza volta avevano dato fuoco ai campi coltivati e, l’ultima, avevano violentato tutte le donne di casa dinanzi agli uomini legati. Episodi che reclamavano vendetta: i Grimani allertarono dalla vicina Portocannone il distaccamento delle Regie Milizie del Molise al comando del tenente Nicola Campofreda. Meomartino, del resto, era diventato una presenza difficile da gestire anche per lo stesso Occhionero che era infastidito dalle sue frequenti visite. Non solo, lo stesso Occhionero ormai veniva descritto dai suoi nemici come manutengolo, ricettatore e marito “paziente”.

 La morte di Gaetano Meomartino arriva dunque la mattina del 9 aprile 1818 durante una rivista della squadriglia in piazza, proprio dinanzi la casa dei Grimani. Prima i colpi di moschetto, poi la scarica di fucileria. Restano sullo sterrato sette cadaveri crivellati di proiettili: si tratta di Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella. Dall’agguato fuggirono trentanove gregari che, nonostante la latitanza, vennero richiamati a Foggia dal generale Amato, comandante della Provincia, affinchè in ossequio al Regio Decreto che ne aveva fatto una squadriglia di armigeri, eleggessero un nuovo capo.

Una chiamata che rivelò presto un tranello per sconfiggere definitivamente la banda che, accerchiata nuovamente dalle truppe regolari, lasciò sul campo nove morti. Circa una decina, tra i più destri, riuscirono invece a fuggire in sella ai propri cavalli, altri venti si rifugiarono in una vecchia cava dove precipitarono e trovarono la morte asfissiati poiché i soldati gettarono materiale infiammabile per stanarli senza successo.
“Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata – scriveva il Masciotta - sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Così fini la gesta dei Vardarelli.”

I DOCUMENTI UFFICIALI Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta: "Ururi, 9 aprile 1818" Sig. Sotto - Intendente, "Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perché nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacché ora mi trovo nella massima confusione. "Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costì mandarlo.
 Il Sindaco Giovanni Musacchio

 Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece: "Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
 "Firmato "
Pasquale Schiavone Economo Curato

martedì 15 luglio 2014

"Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario"


Giovedì 17 luglio alle ore 19,00 presso il Blow Up Cafè, grazie ai ragazzi della Soupy Records, insieme a Vladimiro Cotugno (giornalista de Il Corriere dello Sport) e a Lorenzo Iervolino, scrittore del collettivo romano Terranullius, autore del libro "Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario", parleremo del poeta calciatore, della sua vita, della democrazia corinthiana e del Brasile,di calcio romantico fatto di colpi di tacco, impegno sociale, divertimento, laboratorio politico, irriverenza, allegria. A seguire aperitivo e dj set funky tropicalista con le mie selezioni su vinile. Beh...dico... partecipate no o siete diventati tutti crucchi?


martedì 1 luglio 2014

Ricordando Nino Agostino e Ida Castelluccio: i misteri del delitto di Villagrazia di Carini

Ho conosciuto Palermo partecipando alle numerose manifestazioni che, anno dopo anno, in qualsiasi stagione ed in gran parte dei quartieri della città si tengono per ricordare i caduti della guerra alla mafia. Esiste infatti una sorta di percorso della memoria (che non si trova in nessuna guida turistica) che vede le lapidi ed i cippi di magistrati, giornalisti, poliziotti, carabinieri, commercianti, imprenditori, militanti politici, uccisi per mano della mafia. “Chi è quell’uomo con quella lunga barba bianca?” domandai ingenuamente alla mia futura moglie in una manifestazione alla fine degli anni ’90. “E’ il papà di Agostino” rispose Roberta. Davo per assodato che Agostino fosse un suo amico. Non era così.


L’uomo dai lunghi capelli e dalla barba bianca è Vincenzo Agostino, padre dell’agente Antonino Agostino che, insieme alla giovane moglie Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi, furono assassinati nei pressi di Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989. Da allora Vincenzo non si è più rasato per protesta, giurando sulla bara del figlio, finché non verrà fuori tutta la verità sulla morte di Nino e di sua moglie. Oggi 1 luglio 2014 la famiglia Agostino ha voluto ricordare i 25 anni di matrimonio di Antonino e Ida avvenuto il 1 luglio 1989, attraverso un’iniziativa pubblica che si terrà nella Parrocchia S. Gaetano in Via Brancaccio. Una cerimonia di festa per celebrare la vita dei due giovani sposi assassinati da Cosa Nostra, attraverso la musica, la poesia, i tanti momenti di preghiera e di lettura e dibattito. Anche a Villagrazia di Carini, sul lungomare Cristoforo Colombo, esiste una targa apposta tre anni fa che ricorda l’uccisione dei due coniugi. Ma che accadde il 5 agosto 1989? Antonino Agostino, detto Nino era un poliziotto ed agente del Sisde, il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, un servizio dell’intelligence italiana in attività fino alla riforma del 2007, quando è stato sostituito dall’Aisi (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Una sigla che ritroviamo in tanti scandali politici in cui rimase coinvolta negli anni ’80, i cui vertici comparirono nella lista degli iscritti alla loggia P2.
Quel giorno Antonino non era armato: doveva festeggiare il compleanno di sua sorella in una delle tante ville e case di campagna che fanno di Villagrazia un enorme agglomerato urbano senza nomi di strade, numeri civici e servizi. Quel giorno mentre si apprestava ad entrare in una di quelle ville insieme alla moglie Ida, un gruppo di sicari in motocicletta cominciò a sparare contro la coppia. Agostino venne colpito da vari proiettili, mentre la Castelluccio venne ferita da un solo colpo: quando i famigliari si precipitarono fuori dall’abitazione erano entrambi già morti. Agostino stava indagando sul fallito attentato dell’Addaura, una fascia di Palermo che circonda Monte Pellegrino sul lato mare, dove risiedeva il giudice Falcone per il periodo estivo. La mattina del 21 giugno 1989, gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono 58 cartucce di esplosivo, di tipo Brixia B5, all'interno di un borsone sportivo,  accanto ad una muta subacquea e delle pinne abbandonate, nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato, che aspettava i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann con cui doveva discutere sul filone dell'inchiesta "pizza connection" che riguardava il riciclaggio di denaro sporco. L'esplosivo era stipato in una cassetta metallica, ed era innescato da due detonatori. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: all'epoca ciò fu attribuito ad un fortunato caso (si parlò di un malfunzionamento del detonatore)
Agostino aveva forse scoperto qualcosa di importante su quel borsone-bomba dell'Addaura e per questo è stato eliminato. La notte dell’assassinio, alcuni ignoti "uomini dello Stato" riuscirono ad entrare nell'abitazione dei coniugi defunti e fecero sparire degli appunti che riguardavano delle importanti indagini che stava conducendo l’agente del Sisde. Ai funerali della coppia tenutisi il 10 agosto 1989, erano presenti sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino. Fu lo stesso Falcone, durante il funerale a dire ad un suo amico commissario “Io a quel ragazzo gli devo la vita”.
Sui moventi dell’assassinio di Nino Agostino e di sua moglie è calata una delle tante cappe oscure che hanno contraddistinto la lotta contro Cosa Nostra in Sicilia. Lo stesso Pm Nino Di Matteo sostiene come ci si scontri costantemente con innumerevoli reticenze da parte di uomini delle istituzioni, nonostante non ci sia un segreto di stato sul caso dei coniugi Agostino.
Dopo il duplice omicidio fu Arnaldo La Barbera, ex-questore di Palermo, ad indirizzare le indagini verso un movente “passionale”, sequestrando tutto il materiale dell’inchiesta di Agostino nonché quanto trovato a casa dei due novelli sposi. Nella squadra investigativa ebbe un ruolo il funzionario di polizia Guido Paolilli, tra l’altro amico e collega di Nino, testimone in favore di Bruno Contrada, allora capo dei servizi segreti, nel processo a suo carico. Paolilli, poi indagato per favoreggiamento nel 2011, venne intercettato mentre confessava al figlio di aver distrutto le carte nella casa dei coniugi Agostino. Lo stesso Paolilli confessò al padre di Nino che “la verità non gli avrebbe fatto piacere, e che durante la terza perquisizione nella casa del figlio, aveva requisito 6 fogli che avrebbe voluto fargli leggere.” Documenti mai letti da Vincenzo Agostino che, nelle sue testimonianze, ha ricordato agli inquirenti di un biglietto trovato nel portafogli del figlio nel quale c’era scritto “Se mi succede qualcosa, andate a cercare nell’armadio di casa». L’armadio, nel corso delle due perquisizioni accertate dalla Questura, fu trovato ufficialmente vuoto.
Nell’agosto 2011  oltre a Paolilli è stato indagato Antonio Daloiso, ex-capo di gabinetto dell'Alto Commissariato antimafia, ex Prefetto di Messina e Reggio Calabria oggi in pensione e tale Aiello - agente di polizia - anche lui in pensione. Sembra che entrambi avessero contatti con il boss Gaetano Scotto. L’iscrizione nel registro delle indagini della Procura di Palermo è arrivata grazie alla testimonianza di Ignazio D’Antone, condannato per mafia e ancora oggi detenuto, detto “Il bruciato” e del pentito Vito Lo Forte detto “lo zoppo”, che avrebbe riconosciuto Aiello in una foto del 2009.
Manifestazione Agende Rosse - Via D'Amelio - Palermo 2012
Secondo Lo Forte sia Daloiso che Aiello facevano parte di un complotto per uccidere Falcone nella sua casa di mare nell'Addaura e che Agostino era uno “007” infiltrato, ucciso per aver aiutato  Emanuele Piazza a sventare l’attentato al giudice - anche lui giovane agente del Sisde che si occupava di scovare i latitanti, assassinato nel marzo del ’90 ed il suo corpo mai più ritrovato. Tra le altre testimonianze quella del  pentito Oreste Pagano, che racconta di aver saputo da terzi, nel corso di un matrimonio in Canada, che il boss Gaetano Scotto aveva ucciso Agostino e la moglie poiché stava indagando sui rapporti tra le cosche ed alcuni componenti della questura. “E’ stato ucciso – ha dichiarato Pagano - perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei.”
La verità su questo duplice assassinio, forse dimenticato dai media, probabilmente non verrà mai alla luce. Troppe le resistenze, i depistaggi, il calo di attenzione dell’opinione pubblica e della stessa magistratura dopo venticinque anni. Ed allora oggi si festeggia la loro vita o quella che sarebbe stata con i loro venticinque anni di matrimonio. Probabilmente il modo migliore per ricordare Antonino Agostino e Ida Castelluccio, dato che ormai gli assassini potranno godere della prescrizione. A ricordarci di queste due giovani vite resta la tenacia dei genitori di Antonino Agostino ed i capelli e la barba bianca da patriarca biblico di Vincenzo Agostino che sicuramente incontrerò nuovamente in Via D’Amelio per ricordare ancora una volta il giudice Borsellino. 







lunedì 30 giugno 2014

Torna il cervo sul Matese: inaugurata l'area faunistica dell'Oasi WWF di Guardiaregia - Campochiaro




Si è respirata una bella atmosfera sabato 28 giugno a Campochiaro per l’inaugurazione dell’area faunistica del Cervo, all’interno dell’oasi naturalistica del WWF di Guardiaregia – Campochiaro. Una presenza determinante quella della storica associazione ambientalista sul massiccio del Matese che, anno dopo anno, viene consolidata grazie al lavoro, alle sue strutture e alle numerose iniziative messe in campo soprattutto nel periodo estivo. 
Una presenza incoraggiata finalmente anche dalle amministrazioni comunali dei due centri matesini che hanno compreso l’importanza di un presidio del genere in una zona ricca di interessanti siti, sicuramente validi per un turismo sostenibile, sensibile e attento alla bellezza e all’importanza del massiccio a cavallo di Molise e Campania. Circa un centinaio le presenze per l’inaugurazione ufficiale dell’area dedicata al cervo che sin dalla mattina hanno atteso l’arrivo di Tommaso, cervo maschio proveniente da Villavallelonga (Aq) - comune situato all’interno del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise - che con la sua presenza porta a due (l’altro esemplare di cervo maschio già presente si chiama Bonifacio) il numero di esemplari in località Fonte Litania di Campochiaro. Si tratta di un ulteriore passo verso la tutela naturalistica e soprattutto verso il pieno recupero della biodiversità del Matese. E’ stato Nicola Merola, responsabile dell’Oasi, a spiegare come “L’area faunistica dell’Oasi WWF sia da considerare come il punto di arrivo di un complesso lavoro obbligatorio di autorizzazioni sanitarie e amministrative ottenute localmente, come anche una serie di valutazioni ministeriali e la collaborazione imprescindibile del Comune di Campochiaro e dell’Ente Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.” Misurata preoccupazione è stata espressa dal sindaco di Campochiaro Antonio Carlone, nella conferenza stampa, circa l’autorizzazione di due centrali biomasse (da cippato di legno) nei territori dei due comuni, chiedendo la collaborazione di cittadini ed associazioni sensibili alla materia ambientale. 
Infine il momento atteso, quello della liberazione di Tommaso che, tra flash fotografici, applausi e sorpresa dei tanti bambini presenti, è sceso delicatamente dal suo box, si è inoltrato nella boscaglia, lasciandosi fotografare e riprendere dai presenti per qualche minuto. Subito dopo la festa c’è stato l’ottimo pranzo offerto dalla Pro Loco “Guido Pittarelli” di Campochiaro, ingentilito dai canti del gruppo folkloristico del comune matesino, che ha indossato per l’occasione i pesanti abiti in velluto e panno della tradizione. L’area faunistica del cervo di Campochiaro oltre alla recinzione e alle strutture per gli animali, offre anche un sentiero natura attrezzato ed un centro visita dedicato al cervo europeo creato proprio per approfondire anche dal punto didattico e scientifico la conoscenza dell’ungulato. Per info: 338.3673035 (Guardia Oasi).

mercoledì 11 giugno 2014

Discorso ai giovani di Enrico Berlinguer del 18 aprile 1982

Discorso ai giovani di Enrico Berlinguer del 18 aprile 1982

Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell'epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano probleni non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell'umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili. Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.
La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica - e poi dalla microelettronica - nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell'organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell'ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.
Nuove risorse d'energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l'incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall'energia solare.
Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.
[...]
Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.
Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo - che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo - scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all'inizio del secolo la condizione dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell'Europa e nell'America settentrionale, per avere l'idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.
Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.
Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.
Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.
Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all'inizio - un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni - di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice - che consisteva nel proporre alle donne l'imitazione del modello maschile - tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.
Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all'umanità potenzialità negative anch'esse mai prima esistite.
Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell'uomo su questa terra.
Contemporaneamente, l'uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L'allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull'esistenza di danni crescenti per le acque - i fiumi, i laghi, i mari - e per l'aria che respiriamo, per l'atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra.
[...]
Grava poi sulla umanità l'incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.
E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l'emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all'andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.
Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell'estrema indigenza, (com'era ancora nell'Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.
Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.
Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell'estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.
Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.

Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo - e come - pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un'analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell'umanità?
E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all'interno delle nazioni?
Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l'avvertenza dei pericoli gravi che l'umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.
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Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.
Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.
Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c'è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all'analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.

Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.
Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un "socialismo nuovo".
L'esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall'età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.
Noi riscopriamo proprio così l'esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.
Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E' del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto - già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta - che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale.
La discussione sarà ed è sul rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l'idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E' vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l'idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.
Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all'inizio del secolo.
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Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.
Quei modelli di società e di Stato non solo - e da tempo - li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l'uomo di oggi chiede siano soddisfatti.

Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.
Se non si vuole che la giustizia prevalga sull'ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all'ingiustizia, o l'accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.
Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l'obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell'umanità. Non è così. Vi è anzi un'altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l'altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.
Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l'assurdità - tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l'obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.
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Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il "nuovo socialismo", così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.
In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.
Si è cominciato, praticamente, a parlarne all'inizio degli anni '70: prima, e ancora per tutti gli anni '60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.
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La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.
Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.
Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro.
La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma - dunque - la battaglia per il lavoro chiede anch'essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, "mature" e cioè all'avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?
Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.
Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.
Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.
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Non è mai stato facile essere comunisti. L'assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.
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Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all'associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all'impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.
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Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l'offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica - come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce - ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.
Lo sviluppo dell'associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. "Democrazia" deve congiungersi con efficienza e "libertà", deve divenire responsabilità e liberazione.