Grano e donna nel Molise rappresentano un connubio con precedenti illustri. Se l’attuale management della più grande industria pastaia regionale si concentra nella presenza competente, spigliata, moderna e comunicativa di Rossella Ferro, nel diciottesimo secolo ebbe medesima importanza quella di Sinforosa Mastrogiudice, marchesa di Pietracatella.
Secondo il Galanti nel 1778 la popolazione del Sannio registrò un tasso di incremento pari all’11 per mille e nel Contado di Molise l’aumento continuò anche nel decennio successivo, mostrandosi più consistente proprio nel sud della regione e nei circondari della valle del Fortore, in particolare. Qui si registrò un buon incremento della produzione di cereali in larga misura destinata al mercato, quindi sensibile ai buoni prezzi del grano di quegli anni.
Il Contado di Molise, infatti, nella sua marginalità ottenne, sul finire del XVIII secolo, un discreto ruolo nell’economia complessiva del Regno di Napoli, arrivando ad essere una zona di raccordo tra aree economiche differenti ma complementari tra loro, che comprendeva la piana del Tavoliere, le zone collinari e montuose dell’Abruzzo, il Beneventano e la Terra di Lavoro, fortemente collegati al mercato di consumo della capitale.
Discendente della famiglia Mastrogiudice, titolare dei feudi di Montorio, Bonefro e Montelongo e sposata con Giovan Francesco, della famiglia di origine genovese dei Ceva Grimaldi, marchesi dei feudi di Pietacatella, Telese, Solopaca e Magliano, la giovane Sinforosa dopo la morte del marito avvenuta dopo solo sette anni di matrimonio, con piglio deciso, si rese protagonista di una politica di salvaguardia e consolidamento del potere economico, ma anche dello status e del prestigio che caratterizzavano da decenni il proprio lignaggio di appartenenza e quello maritale, compiendo scelte che portarono all’incremento dei capitali di famiglia e, soprattutto, alla rivalutazione socio-economica di molte aree marginali ricadenti nei feudi sui quali esercitò la sua gestione diretta.
Il Molise era una piccola periferia del Regno, articolata diversamente per assetti colturali e produttivi: la parte nord est del distretto di Larino che era una sorta di appendice del Tavoliere, caratterizzata dalla presenza di boschi, pascoli naturali, e dalla produzione cerealicola in masserie di medie e grandi dimensioni; la zona collinare interna del distretto di Campobasso situata tra l’alta valle dei fiumi Fortore, Tammaro e Biferno, in cui prevalevano le colture cerealicole ed il distretto di Isernia, prevalentemente montuoso e coperto di pascoli naturali, ma non privo di pianure fertili.
Nonostante queste differenze di quadri naturali e ambientali, la parte più estesa della regione era il pianoro della cerealicoltura situato tra i 500 ed i 900 metri di altitudine. In esso si concentrava la maggior parte delle terre coltivate della provincia di Campobasso e vi si produceva la quantità di gran lunga più importante di cereali consumati in loco e inviati in Campania. A conferma dell’elevato livello produttivo di tale zona basti pensare che nel 1770 oltre il 42% del frumento imbarcato e destinato all’annona della capitale Napoli veniva dai porti di Termoli, Campomarino e dalla foce del fiume Fortore, principali centri di raccolta del grano molisano destinato all’esportazione.
Ceva Grimaldi |
Nel primo Settecento i territori feudali molisani dei Ceva Grimaldi e dei Mastrogiudice si estendevano nella fascia interessata proprio dal corso del Fortore e, nella zona sud-orientale, a confine con l’odierna Puglia. Ai Ceva Grimaldi appartenevano i possedimenti di Gambatesa, Pietracatella, Macchia Valfortore. I Mastrogiudice, invece, gestivano Montorio nei Frentani, Bonefro e Montelongo. Il paesaggio agrario di tali feudi era dislocato a diversi livelli di altitudine, ma in esso la superficie coltivata a grano e orzo, da sempre elementi quasi esclusivi dell’alimentazione di uomini e di parte del bestiame di quelle zone, costituiva una caratteristica fondamentale e un punto di riferimento per ogni altra attività produttiva. Tra il medio e l’alto corso del fiume Fortore si concentravano le terre a seminativo che toccavano quasi il 46% della superficie censita nel distretto di Campobasso; la stessa tipologia di colture copriva tra il 50% e il 67% del totale della superficie, nell’intera zona compresa tra i centri di Larino, Bonefro, Civitacampomarano e Casacalenda.
Mastrogiudice |
Quanto al regime di proprietà fondiaria i Ceva Grimaldi e i Mastrogiudice dovevano fare i conti, in fatto di rendita, con i loro concorrenti confinanti: condizioni che non permettevano commercializzazione se non di prodotti cerealicoli, dato che enti ecclesiastici ed università in genere erano proprietari di boschi e di pascoli, utilizzati come cespiti di entrate o per usi civici. Del resto, il patrimonio fondiario significava rendita fondiaria e erano rari i casi in cui venivano impegni capitali per la costituzione di imprese produttive. La diversità e l’innovazione arrivarono proprio da una figura femminile come la marchesa di Pietracatella Sinforosa Mastrogiudice, che attuò non poche migliorie nei propri possedimenti incrementando il patrimonio grazie anche a cospicui investimenti monetari.
In quel tempo dalle terre coltivate a cereali i proprietari ricevevano rendite in natura (terraggi) o in denaro (affitti). Le somme derivanti dai terraggi si calcolavano in base all’estensione delle superfici seminate dai coloni e non in relazione al prodotto da essi effettivamente raccolto. Ciò poneva i feudatari al riparo dalle conseguenze di cattive annate in quanto gli anni di carestia rappresentavano per i feudatari buone occasioni per vendere a prezzi più alti quantità di derrate, in media non molto inferiori a quelle ricavate in anni di raccolto normale. Nei feudi d’altura vigevano i terraggi, gli affitti o i contratti di affitto e terraggio. Questa connotazione della rendita, generalmente, indicava che dietro al contratto di riscossione, con il quale si formalizzavano i rapporti tra i feudatari e i contadini, si celava una storia locale e demografica attraversata da colonizzazione, emigrazione, spazi vuoti, territori abitati. Ciò rappresentava la peculiarità del paesaggio agrario molisano, con la sua scarsa produttività naturale; la mancata modernizzazione delle tecniche agricole; le distanze che i prodotti dovevano percorrere per arrivare ai mercati; l’arretratezza culturale delle comunità. Con questa consuetudine i Ceva Grimaldi e i Mastrogiudice, affrontando le congiunture economiche e i danni generati dai fenomeni naturali, avevano gestito le rendite adeguandosi ai sistemi produttivi locali.
In tale contesto venne stipulata l’alleanza tra i due casati mediante il matrimonio dei primogeniti delle due famiglie e che avrebbe portato la giovane Sinforosa Mastrogiudice a gestire il patrimonio di entrambe le casate, rimanendo l’ultima erede di un discendenza feudale che nel Contado sarebbe morta con lei.
Il Contado di Molise aveva subito una serie di catastrofi naturali (la peste del 1656; i terremoti del febbraio 1703 e del novembre 1706) nonché l’esproprio di ampie porzioni di territori feudali ricadenti nel Contado da parte della Regia Dogana della Mesa delle pecore di Puglia.
Era questo lo scenario nel quale si trovò ad agire la marchesa Sinforosa Mastrogiudice quando, dopo essere rimasta vedova di Giovan Francesco Ceva Grimaldi ed aver successivamente ricevuto i beni feudali paterni, iniziò ad amministrare i possedimenti dei due lignaggi. Se, generalmente, l’accesso delle donne alle risorse familiari durante la vita coniugale dipendeva grandemente dal regime matrimoniale e successorio, nel Regno di Napoli le norme non penalizzavano drasticamente le figlie anche perché si faceva spesso ricorso alla coutume matrimoniale conforme all’«uso di Proceri e Magnati» che tendeva a valorizzare la posizione della sposa. Grazia a questo Sinforosa, probabilmente, poté dimostrare di essere in grado di amministrare i beni frutto dell’unione patrimoniale delle due famiglie, attraverso competenze acquisite nel tempo grazie probabilmente anche al rapporto solidale e rispettoso che ebbe con il marito fino alla sua morte. Non furono pochi gli scontri con l’Università, tanto che nel 1736 una supplica contro i presunti abusi della feudataria venne presentata al Sacro Regio Consiglio. Le accuse riguardavano la fida a forestieri in alcuni territori demaniali costringendo così gli abitanti del posto a portare i loro animali a pascolare altrove, la proibizione ai cittadini di tenere forni e taverna, la pretesa da ciascun colono di un carro di paglia e da ciascun bracciante un carlino all’anno, la restituzione di alcuni territori che erano stati trasformati da “silvestri e incolti” in campi coltivati pagando alla suddetta il dovuto terraggio, l’intromissione nell’elezione degli Ufficiali dell’Università ed il possesso de frutti del Molino.
La Marchesa replicava che la fida ai forestieri si era sempre fatta; che il forno e la taverna facevano parte dei corpi feudali e pertanto era suo diritto proibire quelli privati; che per tradizione antichissima ogni contadini dava un carro di paglia ed ogni bracciante un carlino; che i contadini che per tre anni non coltivavano i terreni loro dati ne perdevano il diritto e i proprietari potevano disporne a loro piacere; che in cambio dei frutti del Molino l’Università aveva ottenuto tutta la rendita degli erbaggi della Difesa compresa la terza parte spettante alla feudataria; che mai si era intromessa nella nomina degli Ufficiali; che non aveva costretto i suoi vassalli a lavorare senza ricompensa ma anzi aveva assunto più gente del dovuto mossa a pietà dalla loro miseria.
La querelle andò avanti per vari anni finchè “considerato quanto lungo e dispendioso sarebbe stato il proseguimento di dette liti e desiderando tanto la Signora Marchesa, come affezionata verso i suoi vassalli quanto li cittadini come ossequiosi e rispettosi vassalli verso detta Signora Marchesa … ed anche su la considerazione della commune quiete e vivere con quella reciproca pace, armonia e concordia che tra Padroni e Vassalli deve sempre regnare”, nel luglio del 1742 si arrivò ad un accordo che mi mise pace alla questione.
Nello specifico Sinforosa incrementò il ricavato dei cosiddetti “censi antichi” e dei canoni ad ammontare fisso pagati in denaro. Questo tipo di entrate aveva, più che un valore economico, un significato simbolico perché esse derivavano da antiche cessioni a vassalli tanto di terre, quanto di edifici urbani e rurali di proprietà degli antenati della marchesa la quale, rinunciando a riscattarli, si era creata varie rendite annuali. Se fino a quel tempo le somme versate venivano dilazionate o, addirittura, effettuate attraverso il versamento di beni di consumo, nei feudi ereditati dal padre ed in quelli maritali la Marchesa non mancò mai di ricorrere agli erari locali per riscuotere quei censi di cui, altrimenti, non avrebbe beneficiato.
Un passo che, evidentemente, nella strategia della Marchesa sembrò non bastare, data anche la reiterata morosità dei vassalli. Da quel momento le attività della Marchesa si dedicarono alla vendita degli animali con cui vennero incrementate ulteriormente le proprie rendite annue. Un progetto che segnò la rivalutazione delle attività economiche del feudo paterno di Montorio dei Frentani che, nei primi decenni del Settecento, caratterizzò una sua profonda trasformazione dovuta in massima parte alla colonizzazione feudale che assunse discrete dimensioni con importanti risvolti sul piano economico e politico, oltre che sociale.
Su questo processo agirono fattori diversi, il più importante dei quali furono le esigenze della feudataria volte alla riqualificazione della rendita in una congiuntura caratterizzata dalla crescita della domanda cerealicola. Ciò spinse Sinforosa a valorizzare aree marginali e incolte, convertendole alla produzione granaria e facendo ricorso ad una nuova forza lavoro a basso costo disponibile alla migrazione. La cosiddetta licentia populandi si diffuse molto in quel periodo e a Montorio portò addirittura al ripristino di intere aree diroccate del centro storico e alla costruzione di nuove abitazioni.
Sul finire degli anni venti del Settecento la marchesa avviava, quindi, una volontaria azione di promozione e finanziamento di attività agricole e manifatturiere che richiamarono braccianti ed artigiani dai centri limitrofi, i quali si stabilirono definitivamente a Montorio.
Ma la marchesa aveva incrementato la ristrutturazione edilizia dei borghi nei suoi possedimenti colpiti dal sisma del 1703 e del 1706, provvedendo alla ristrutturazione del palazzo baronale che gli eventi calamitosi avevano reso inservibile, attirando dall’alto Sangro e dall’Alto Molise artigiani e maestranze che in seguito si stabilirono in quei borghi, ripristinando beni ad uso della comunità non senza trarne un utile personale in denaro, fino a raddoppiare le rendite provenienti dai diritti feudali.
Naturalmente le attività economiche della Mastrogiudice incrementarono anche l’arrivo a Montorio di professionisti e uomini di legge per le opportunità di accesso a posizioni di rilievo sociale che il centro garantiva, costruendo una nuova identità culturale e municipale che divenne in quel tempo centro di propulsione amministrativa.
All’occorrenza la Mastrogiudice forniva prestiti ai vassalli indebitati, o comprava le cambiali dai creditori. Se il vassallo non riusciva a risollevarsi dal momento di crisi, si trovava prima o poi costretto per estinguere il debito e a venderle i propri beni come successe, ad esempio, a Onofrio Fusaro di Macchia Valfortore il quale, nel 1730, per liberarsi dal censo di 28 carlini, rateizzazione di un capitale di 35 ducati che doveva alla marchesa, decise di vendere il «bottaro, seu cellaro, con una grotta di dentro, ed una casa di un membro superiore, com’anche un giardino murato con una misura in circa di territorio, sito e posto nel luogo detto la Porta di Capo», al prezzo di 73.
L’ultimo rogito notarile porta la data del 1742, anno precedente alla sua morte (avvenuta il 25 marzo del 1743), atto con cui Sinforosa sembra gestire ancora in prima persona i propri possedimenti. La floridità economica vissuta da Montorio durante il periodo di amministrazione della marchesa Sinforosa, si conservò nel tempo.
Così Francesco Longano, nel 1778 in Viaggio per il Contado di Molise, descrivendo la zona riconducibile ai possedimenti feudali di Sinforosa Mastrogiudice, si soffermava sulla qualità delle varietà di grano che vi si coltivavano: «finalmente il terreno notabile migliora in Casacalenda, Montelongo, Montorio. Ma in tali luoghi, fuori della coltura de’ campi, e quella della pastorale, non si dee cercar altro, ancorché i terreni fussero assai propri per uliveti, e per gelsi. Quivi si raccolgono buone caroselle, saravolle, e mischie, e pannelle. La semina del grano d’India non si trascura. L’industria dell’api è scarsa, ma non ci manca. E ciò in quanto al mezzodì del Contado».
Un particolare ringraziamento alla prof.ssa Sonia Fiorilli per il materiale bibliografico e per aver acceso la mia curiosità per Sinforosa Mastrogiudice.
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